Ieri sera ho assistito a un concerto di tale bellezza come non ne ricordavo da tempo. Asaf Avidan si è esibito nella suggestiva location del Teatro Romano, primo in cartellone della rassegna musicale/teatrale veronese Rumors Festival. Lo seguiranno Patti Smith e Nina Zilli ma, per quanto quotate (Patti Smith in primis) le due, difficilmente credo potranno arrivare a vette di intensità raggiunte ieri dal folletto israeliano. Lanciato in tutto il mondo un paio d’anni fa con “One Day/The Reckoning Song”, forse nell’immaginario di troppa gente è rimasto legato a quel (tra l’altro riuscitissimo episodio), scambiandolo per un fenomeno passeggero, e per questo magari non è stato compreso nella sua grandezza e nel peso specifico che potrebbe sempre più rappresentare in fatto di moderno cantautorato, venato di folk e blues.
Sarà per questo che il Teatro, seppur abbastanza gremito, non era pienissimo, e spiace perchè sono bastate poche note per capire che ci saremmo trovati davanti un vero Artista, un funambolo, un jolly capace con la sua sola voce e presenza scenica di inchiodare l’ascoltatore, aiutato sì da una giovanissima band in piena sintonia con le sue stranezze (tre ragazze – bravissima soprattutto la chitarrista, ma sul pezzo anche le due tastieriste/polistrumentiste – e una convincente sezione ritmica maschile) e che ruotava abilmente attorno a lui, sempre al centro della scena.
Dicevamo di “One day/The reckoning song”: eseguita all’inizio del bis, in versione dapprima intimista e acustica (con un’atmosfera simile a quella in grado di stregare la platea del Festival di Sanremo nel 2013) e poi sorretta dal gruppo, è senza dubbio una piccola gemma del suo repertorio ma rischia di diventare una “trappola” per il cantante, che tra l’altro ha mostrato un leggero distacco dalla famosa versione remixata che gli diede immensa popolarità. E’ certamente una delle più dirette e immediate del suo songwriting, cruda e profonda, ma a mio avviso ieri abbiamo assistito a uno spettacolo tout court, pieno zeppo di momenti emozionanti.
A cominciare da un’altrettanto splendida ballad, quella “Different Pulses” che intitola pure il suo album ad oggi più venduto. E che dire di una scoppiettante “Conspiratory Visions Of Gomorrah”, qui resa magnificamente in versione country. Le atmosfere variano tantissimo da un brano all’altro, passando dal blues profondo e suggestivo (quasi alla Janis Joplin, se vogliamo trovare un indicatore di qualità in quanto a capacità di trasmettere tutto sè stesso nei brani) al vaudeville, alla canzone d’autore fino a brani arrangiati con impeccabili inserti elettronici, senza dimenticare le code psichedeliche presenti in brani come “The Labyrinth song”, una delle cinque proposte al pubblico tratte dal suo ultimo album “Gold Shadow”.
Un disco che meriterebbe di certo più eco commerciale, vista l’indubbia qualità dei brani, come la title track, citata da lui stesso in uno dei tanti inframmezzi verbali con un pubblico ammirato ma anche divertito! Di “Gold Shadow” il cantante ha ammesso che si tratta della canzone che forse più di tutte lo rappresenta e che risponderebbe quella a chi gli domandasse quale sia fra tutte le sue composizione la sua favorita. Il rapporto con l’Italia sarà sempre più stretto, a sentire le sue parole d’amore nei confronti dei nuovi amici marchigiani conosciuti tempo fa (di recente Avidan ha acquistato casa a Fossombrone) e speriamo sia un presagio per rivederlo più spesso dal vivo, visto che questa veronese sarà l’unica data estiva del suo tour.
Convincono anche “Little parcels of an endless time”, con il contributo attivo di tutta la band a seguire le sue alchimie vocali e una “Cyclamen” sul tema della morte, resa più “semplice” dal fatto che prima di cantarla avesse bevuto un drink, per “alleggerirsi”, parole sue. L’eccessiva intensità delle canzoni non va a scapito delle performance, visto che Asaf mantiene alto il livello di intonazione, concedendosi sprazzi di follia, con tirate vorticose, sibili, voci urticanti, roche, alternate a episodi di una dolcezza disarmante. Ma forse i momenti che si ricordano meglio sono proprio quelli più vivaci, a testimonianza di una personalità davvero in divenire, mutevole, e difficilmente etichettabile, quasi come il primo Jeff Buckley, capace anch’egli di fondere nella sua musica tanti generi e atmosfere diverse.
Il tema dell’amore è centrale, spesso ne parla al pubblico, come quando decide di dedicare “a chi ha trovato il vero amore ed è sopravissuto” la già citata “Gold Shadow”, una delle più ricche di pathos. Coinvolgente, passionale, è riuscito a trasmettere tutto sè stesso su quel magico palco, senza risparmiarsi, dimostrando di amare veramente la musica. Alla fine, nell’ultimo bis, “Hangwoman”, per uno dei suoi pezzi più antichi, risalente al 2009, ben prima che il suo successo diventasse planetario, quando ancora suonava in Israele con i sodali Mojos , proprio tutti ci siamo ritrovati a saltare a ritmo, come lui ci aveva esortato a fare!
Insomma, in meno di due ore di concerto, Asaf Avidan ha dimostrato di essere tutt’altro che un personaggio costruito, nè tanto meno di essere un fenomeno usa e getta, ma di essere qui per restare. La sua personalità così sfaccettata, ambigua, la sua stessa voce che diventa strumento – e lui ha saputo giocarci anche ieri su questo elemento -, il suo eclettismo, la sua curiosità, sono fattori imprescindibili che rendono la sua musica assolutamente unica nell’odierno panorama musicale internazionale.