Ascanio Celestini va in giro per l’Italia a fare i suoi Discorsi alla nazione e il tempismo lo asseconda perfettamente con questa seconda tornata elettorale. Ma mentre questa sembra passare nel silenzio, con un altissimo livello di astensione popolare nonché di (calcolato) snobismo da parte di media e politici, le elezioni – o meglio, la scelta politica di cui si parla nei Discorsi alla nazione giunge inaspettata ma molto attesa, e il suo esito è al tempo stesso sconcertante quanto ovvio.
Ma andiamo con calma. C’è un palazzo, un condominio. Ad ogni piano, c’è un inquilino. Ognuno ha le sue fobie, le sue meschinità, ognuno racconta la sua storia. C’è chi spara dal balcone, in modo democratico ed equo, senza distinzione alcuna né senza motivo; chi riesce a rapportarsi agli altri soltanto con una pistola in tasca, c’è l’uomo invisibile, perché gli altri non riescono a vedere la sua umanità, gli uomini con l’ombrello e quelli che vivono sotto agli uomini con l’ombrello.
Piove, da sempre e continuativamente, in questa ipotetica nazione. “Piove governo ladro” direbbe qualcuno; il problema è che il governo, non c’è, o, se c’è, è come se non ci fosse. Sulla scena non ci sono molti elementi, qualche luce e qualche trave, che spezzano l’intervallo dei monologhi dei diversi inquilini. Si infila ogni tanto una voce, che dialoga al telefono con un’altra delle inquiline del palazzo, angosciata dalla presenza di “qualcosa” che le blocca la via d’uscita di casa; Celestini risponde con la voce del portiere, serafico, immobile anche lui, chiuso nella sua indifferenza tanto quanto gli altri.
Le persone, i cittadini, sono prigionieri, immobili in un perenne status quo. La cittadinanza sembra morta, sta chiusa in casa o assiste inerme ai soprusi, che ormai sono diventati la normalità. Perché sembra normale non avere diritti, non avere doveri, vivere dietro la finestra o qualche altro schermo, pensare solo per sè e immaginare gli altri come fossero dei bersagli nemici. Lo spettacolo si apre con stralci di discorsi di vari dittatori, si chiude, perciò, con un ultimo discorso, quello del dittatore di questo paese. Che svelerà come nulla sia cambiato, tutto erà già scritto e stabilito, come la gente comune e fatalista crede facilmente, e non c’è niente di nuovo sotto il sole. Celestini ha riutilizzato pagine del suo Io cammino in fila indiana per costruire una vicenda simil vera che canta l’inerzia del nostro paese, la rassegnazione al mediocre, la banalità del male. Il suo teatro di narrazione indegna e fa riflettere, temendo che ci siano davvero ancora molti inquilini che attendono che qualcuno si affacci a un balcone e faccia discorsi.
Appena passato dal Teatro Piccolo di Milano, I discorsi alla nazione continuano.