Proponiamo ai nostri lettori il testo dell’intervento pronunciato dal generale di brigata Francesco Lombardi, vice-direttore del CeMiSS (Centro Militare di Studi Strategici del Ministero della Difesa), in occasione della conferenza “BRICS: opportunità politiche per l’Italia nel nuovo contesto multipolare” tenutasi a Roma il 24 febbraio scorso a cura di “Geopolitica” e dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) assieme allo Studio Legale Associato NCTM e a ISIAMED.
Secondo molti autorevoli analisti, tra meno di vent’anni il PIL dei paesi dei BRICS raggiungerà e forse supererà il 40% del totale mondiale, a fronte del 18-19% attuale. Su questo dato convergono sostanzialmente tutte le analisi. Un po’ più acceso, invece, è il dibattito scientifico, culturale ed accademico sui modi e su quando tale peso economico potrà tradursi in influenza politica e strategica. L’Occidente pare destinato, a detta della maggioranza degli studiosi, a perdere, nei decenni futuri, il ruolo di traino dell’economia mondiale e di leadership della governance planetaria. Perdita di influenza politico-strategica che sarà anche dovuta all’ascesa, oramai conclamata e misurabile, dei Paesi del BRICS.
L’interesse di questi nuovi attori ad assumere un ruolo maggiormente proattivo e qualificante sulla scena mondiale è evidente, ma non è da ritenere che tali Paesi, nonostante i tentativi di coordinare talune loro politiche, possano costituire tra loro una alleanza o dotarsi di una struttura permanente con effettivo peso strategico. E’ certamente nelle intenzioni e nell’interesse dei cinque Paesi di cui si discute uscire da quella periferia del Mondo in cui hanno vissuto per decenni, avendo potuto usufruire solo marginalmente dei benefici dei progressi dell’Occidente; tali Paesi, però intendono raggiungere posizioni di rilievo e di potenza secondo strategie soggettive e con obiettivi diversi che rendono difficili, se non inefficaci, analisi generali e cumulative.
I dati che caratterizzano i Paesi dei BRICS, in termini di peso economico, demografico, territoriale, pur nelle differenze esistenti, ne fanno dei nuovi irrinunciabili attori nel mondo globalizzato, ma uno dei temi dibattuti è se talune affinità ed una certa comunanza di interessi possano essere il nocciolo intorno a cui aggregare tali Paesi trasformando l’attuale foro di discussione e confronto in una vera alleanza (formale o anche solo di fatto) capace di influire sulle cose del Mondo col loro peso complessivo. La maggioranza degli studiosi risponderebbe negativamente a questo quesito. Molti di essi osservano che non esiste alcun precedente storico in merito ad una alleanza che abbia legato Paesi per il solo fatto di essere contemporaneamente in forte crescita economica. Non si rintracciano situazioni in cui i soli interessi strategico-economici abbiano indotto alla decisione di costituire una alleanza strutturata. Più verosimilmente − a ciò ci inducono tutte le analisi politico-strategiche elaborate con una buona dose di concretezza − le alleanze politiche, e quelle militari, vengono realizzate sulla base di elementi indipendenti dai tassi di crescita e dal solo potenziale economico. Le future alleanze, al pari di quelle del presente, si formeranno presumibilmente in maniera non dissimile da quelle del passato; deriveranno, cioè, da convergenza di interessi economici, competizione per le materie prime, posizione geopolitica, esigenze di sicurezza, aspetti ideologici, religiosi o culturali.
Per tale ragione, la costituzione del foro tra i cinque Paesi, realizzato a Sanya lo scorso aprile, pare più destinata ad essere una associazione in cui concertare scelte contingenti, soprattutto di carattere economico, che l’embrione di un nuovo Attore monolitico. Gli Stati Uniti, l’Europa ed anche il Giappone, certamente non possono non tener conto della possibilità dei BRICS, in futuro, di “far fronte comune” oltre che su questioni economiche anche su quelle di natura più squisitamente politica o militare, come è avvenuto in occasione di dichiarazioni congiunte su talune importanti crisi dell’agenda planetaria. Ciò, però, non fa del forum creato a Sanya nella primavera del 2011 una organizzazione sempre pronta ad assumere posizioni comuni ed unite. Sono poi troppo differenziate le posizioni e le caratteristiche dei Paesi coinvolti per poter individuare elementi strategici effettivamente aggreganti. Tutti i cinque Paesi hanno ambizione a diventare potenze regionali e, siccome 3 di essi (Cina, Russia ed India) condividono la stessa area del globo, è presumibile che gli elementi e gli interessi che li dividono siano maggiori di quelli che li uniscono. Le ambizioni egemoniche di questi tre giganti rischiano, soprattutto in futuro, di collidere, rendendo evanescenti eventuali atti concertati in precedenza. I BRICS, quindi, non possono essere analizzati come un blocco coeso (anche se, come si è detto, sono coscienti della possibilità di sviluppare sinergie su obiettivi specifici).
La Cina è il rappresentante di maggior peso, sia in termini economici che militari e demografici. L’India, invece, che a breve supererà gli altri protagonisti per dimensioni demografiche, non dispone di altrettante potenzialità negli altri settori. Peraltro, India e Cina, che per il proprio crescente sviluppo necessitano di sempre maggiori risorse naturali, già si confrontano in quelle aree dove maggiori sono le disponibilità di prodotti naturali (Africa, soprattutto). Al riguardo, è da ritenere che l’allargamento al SudAfrica del forum dei precedenti quattro BRIC ha proprio lo scopo di garantirsi maggiori possibilità di penetrazione strategica nel continente, visto il ruolo di leader assunto, di fatto, dal paese più meridionale del continente stesso. In ogni caso è da attendersi, parallelamente al declino strategico dell’Occidente ed all’incremento del peso strategico degli Attori in questione, un ordine mondiale “multi-polare”, con relazioni ed alleanze contingenti. Riguardo agli assetti geostrategici, è poi di estremo interesse valutare l’impegno nel dotarsi di strumenti e tecnologie militari quale principale indicatore della propensione e dell’interesse ad assumere posizioni egemoniche di potenza.
Nel perseguimento delle proprie ambizioni di potenza, quantomeno regionale, e nei conseguenti programmi di ammodernamento degli strumenti militari, taluni paesi devono individuare soluzioni organizzative e tecniche idonee a rendere compatibili ed integrabili mezzi ed apparati provenienti da scuole tecniche diverse. Paesi come l’India, in particolare, che ancora dispongono di quantitativi rilevanti di mezzi di produzione russa, se non sovietica, saranno impegnati anche in quell’attività, da taluni definita di “ibridizzazione”, di garantire la coesistenza di strumenti approvvigionati in Occidente con quelli provenienti dal rifornitore storico. Attività la cui complessità aumenta al crescere dei contenuti tecnologici degli apparati.
Mi riferirò quindi, per taluni confronti quantitativi di carattere internazionale, ai dati più recenti elaborati e pubblicati dal SIPRI (Stockholm International Peace Research Istitute) che è il più autorevole istituto indipendente internazionale di analisi geostrategiche. I dati elaborati ci permettono di determinare lo stato delle cose e delineare possibili linee evolutive in riferimento ai Paesi su cui oggi abbiamo puntato i riflettori.
Pur con un tasso di crescita del budget militare del 3,8% rispetto all’anno precedente, inferiore al tasso di crescita della ricchezza nazionale, la Cina presenta un budget per le spese militari indubbiamente maggiore rispetto a quelli posti in essere dagli altri componenti il BRICS. In linea generale, nel primo decennio di questo secolo la Cina ha quasi triplicato, in termini reali, la propria spesa militare, nell’intento di colmare il gap di capacità e di modernità dei propri apparati con l’Occidente ed in particolare con gli Stati Uniti. Le preoccupazioni al riguardo da parte degli USA sono evidenti, tanto che è oramai conclamato lo spostamento progressivo verso il Pacifico degli interessi e di parte delle proprie capacità militari già posizionate nella vecchia Europa. Il Paese è ancora dipendente da Mosca per parte dei propri materiali, ma è evidente l’interesse a dotarsi di tecnologie avanzate. Tecnologie che non è possibile acquisire direttamente, stante l’embargo vigente. Riguardo a quest’ultimo aspetto, mi preme rammentare che dall’89 è attivo un embargo della UE nei confronti della Cina.
Non sono mancati negli ultimi anni voci che auspicano la rimozione dell’embargo, comunque fortemente contrastate dagli USA e dal Giappone. I fautori di una abrogazione del provvedimento restrittivo lo ritengono una misura anacronistica e comunque inefficace al raggiungimento degli obiettivi prefissatisi; ma al momento la questione pare lontana dall’essere risolta. Anche se sono palesi, pur tra alti e bassi, le richieste di Pechino di rimozione dell’embargo quale contropartita ad un forte intervento cinese in favore dei disastrati debiti sovrani del vecchio continente. Da taluni l’embargo è ritenuto poco efficace in quanto non incide in misura determinante sulle capacità militari di Pechino, in quanto si riferisce perlopiù ad equipaggiamenti direttamente letali. La Cina, infatti, riesce spesso ad accedere egualmente a programmi dual use, e quindi anche di interesse militare, come nel caso del “GPS europeo” Galileo sul quale Pechino ha investito almeno 230 milioni di euro, o di altro materiale militare “non strategico” fornito a livello di singoli componenti. È anche vero che un’eventuale rimozione dell’embargo, poi, non cancellerebbe le disposizioni del Codice di Condotta sull’Esportazione di Armamenti approvato a livello europeo nel 1998. Questo codice proibisce l’esportazione di tali equipaggiamenti nel caso: – la transazione violi altri impegni internazionali, come quelli nel campo della non proliferazione; – vi sia un chiaro rischio che i materiali possano essere utilizzati per repressioni interne; – la fornitura possa provocare, o prolungare, o esacerbare un conflitto armato o tensioni pre-esistenti; – vi sia un chiaro rischio che gli equipaggiamenti vengano utilizzati aggressivamente contro un altro Stato o per risolvere una disputa territoriale. Il Codice richiama, inoltre, anche a condotte di speciale cautela laddove: – vi siano serie violazioni dei diritti umani; – gli equipaggiamenti possano essere utilizzati contro alleati e partner dell’UE; – vi siano rischi di trasferimento delle tecnologie e di reverse engineering. Tuttavia questo Codice nei fatti è meno legalmente vincolante di qualsiasi forma di embargo, in quanto esso demanda l’applicazione delle sue disposizioni alle legislazioni nazionali dei Paesi membri. È intuibile come quei Paesi con una legislazione in materia estremamente permissiva avrebbero maggiori spazi di cooperazione mentre ne soffrirebbero altri, caratterizzati da disposizioni di legge assai più restrittive in materia di esportazione di armamenti.
In Russia, le spese militari nel 2010 hanno registrato, per la prima volta nel decennio, un calo del 1,4% in valore assoluto. Dopo la crisi che colpì Mosca tra il 1992 ed il 1998 con un deciso calo del PIL ed una drastica riduzione delle spese militari, ora l’economia russa, anche grazie ai proventi derivanti dall’esportazione di prodotti energetici, si avvia verso un nuovo periodo di crescita. Il calo delle spese militari registrato nel 2010, però, è da ritenersi occasionale, perché nelle intenzioni della dirigenza moscovita è evidente la volontà di modernizzare i propri strumenti militari, anche alla luce delle esperienze belliche e delle rinnovate ambizioni di potenza. La spesa militare, comunque, già incide sulla ricchezza nazionale per valori stimati che superano il 4%; è da ritenere che nuovi investimenti potranno effettivamente realizzarsi solo in caso di effettiva e significativa crescita di ricchezza prodotta. Va precisato che, proprio di recente, Putin ha dichiarato che intende, qualora rieletto, avviare un programma di riarmo che prevede investimenti nel settore Difesa per 600 miliardi di euro da qui al 2020, con una particolare gravitazione nel settore missilistico e navale; è presumibile che la dichiarazione sia in buona parte motivata da ragioni di propaganda elettorale, ma è certo che le rinnovate volontà di grandezza debbano essere supportate da azioni forti ed evidenti. Nello specifico dei rapporti col nostro Paese va rammentato che è attivo un accordo di cooperazione generale nel settore della difesa ratificato dal Parlamento nel 1999. Un altro accordo di dettaglio inerente i campi tecnico-militare e dell’industria della Difesa, sottoscritto nel 1996, non è stato ancora ratificato da Mosca.
La spesa militare indiana, nel 2010, ha registrato una leggera stagnazione pur a fronte di un incremento, nel decennio, del 54%. La frenata, rispetto agli annunci formalizzati, pare derivante dai riflessi della crisi economico-finanziaria che ha inciso sui tassi di crescita riducendo i valori registrati negli anni precedenti. Pur in assenza di documenti ufficiali che definiscano le strategie di sicurezza e difesa nazionale da cui estrarre elementi di valutazione certi, è prevedibile che il calo registrato resti un caso isolato, non fosse altro che per bilanciare la crescita degli altri potenti vicini. Il Paese resta il primo importatore al mondo, anche per l’assenza di una industria nazionale competitiva, ed ha infatti avviato un forte processo di ammodernamento soprattutto del proprio strumento aeronavale, facendo ricorso, in taluni casi, oltre che al tradizionale acquisto, anche a formule di leasing. Per quel che riguarda i rapporti diretti col nostro paese, è attivo un Accordo sulla Cooperazione nel campo della Difesa, ratificato dalle parti nel 2008. In linea di massima, sono da guardare con favore le sinergie che potrebbero favorire una positiva ricaduta per il nostro sistema Paese e, pertanto sono da favorire le possibili creazioni di concrete opportunità di mercato per le industrie della Difesa. Infatti, l’India rappresenta una valida opportunità di investimento ed un interessante mercato per le nostre esportazioni nel campo dell’industria per la difesa, pur in presenza di un’agguerrita concorrenza da parte di Gran Bretagna e Francia, soprattutto nel settore navale (cacciamine, mini-sommergibili di salvataggio, progettazioni navali, ecc.) aeronautico (avionica, velivoli ATR, elicotteri) e dell’elettronica.
La spesa militare brasiliana ha subito un significativo incremento, in termini reali, nel 2010 rispetto all’anno precedente nell’ambito di un incremento complessivo nel decennio del 30%. La crescita, lenta, rispetto agli altri attori esaminati è dovuta ad un drastico intervento riduttivo realizzato dall’allora Presidente da Silva. Dopo tale riduzione, però, il budget ha continuato a crescere attestandosi nell’ultimo anno monitorato intorno al’1,6% del PIL. Comunque, in linea con altri paesi della regione, anche il Brasile ha intrapreso, in anni recenti, un programma di modernizzazione e potenziamento delle forze armate, che prevede una modernizzazione della struttura di difesa attraverso una riorganizzazione dei propri apparati militari, una ristrutturazione dell’industria militare, con mire non nascoste di porsi quale concorrenziale esportatore. Comunque è da attendersi che, qualora la politica economica di Brasilia graviti verso la creazione di più efficaci strutture di welfare, non vi siano ulteriori significativi incrementi nella spesa militare ma nel contempo vi è da attendersi un deciso incremento degli investimenti in ricerca tecnologica, ritenuta strategica per l’acquisizione di posizioni mondiali di prestigio. Va precisato, per completezza di informazione, che nell’aprile 2010 è stato sottoscritto il Partenariato Strategico tra la Repubblica Italiana e la Repubblica Federativa del Brasile che contiene una sezione (la IV) interamente dedicata alla cooperazione in materia tecnico-militare di difesa, intesa a sviluppare una relazione privilegiata, basata su future collaborazioni industriali e sullo scambio di esperienze e tecnologia.
Nonostante il livello della spesa militare del Sudafrica sia di gran lunga inferiore a quello dei Paesi presi precedentemente in esame, esso risulta essere il più alto di tutta l’Africa sub-sahariana. Nel 2010, l’ammontare della spesa militare sudafricana è di circa 4,5 miliardi di dollari, pari all’1,2% del PIL del Paese; rispetto al 2009 c’è stata una diminuzione del 20%, ma rispetto al 2001 c’è stato un aumento del 22%. Dalla fine dell’apartheid, nel 1994, il Sudafrica è emerso come maggiore attore africano in termini politici, economici, di difesa e diplomatici. Ciò è fondamentalmente dovuto a tre aspetti principali: a) il suo ruolo di crocevia economico e commerciale, della manifattura e dell’investimento nell’Africa del sud, b) la sua capacità militare, sia in termini di spesa sostenuta che di sviluppo dell’industria della difesa; c) la sua crescente posizione all’interno delle organizzazioni multilaterali, in particolare nella Southern African Development Community e nell’Unione Africana. Inoltre, il Sudafrica rivendica anche una leadership, nei confronti degli altri paesi africani, nella promozione dei diritti umani. Ne deriva che, ancorché la mancanza di competitor vicini non possa indurre a decisi incrementi nelle spese militari, è da attendersi comunque che esse non diminuiscano nell’immediato. Inoltre, l’eccellente livello tecnologico posseduto dagli ambienti tecnico-industriali, le già esistenti e possibili future iniziative bilaterali nel settore dei mezzi e materiali per la Difesa, rendono i rapporti bilaterali con il Sud Africa nel campo dei materiali della difesa interessanti e da non sottovalutare. In tale ambito, il Sudafrica si pone, infatti, come Nazione leader nel continente africano. Il mercato della Difesa sudafricano, in un quadro di scambio di tecnologie ed offset, potrebbe offrire per l’industria della difesa italiana interessanti sviluppi.