E allora? Si torna indietro a raccattare ogni cosa persa per la strada, come cercatori di pepite, per poi ricucirsela addosso come meglio si può? Alla fine come si chiude la partita, con un mucchio di cose che non ti appartengono più ma che hai voluto tenere a te per una sorta di stipsi emotiva?Oppure si lascia a terra ciò che si perde, noncuranti delle tortuosità del percorso in cui il brandello è rimasto impigliato? Senza curarsi di come si è perso qualcosa, di cosa fosse, senza riflettere sul suo valore nella nostra esistenza, nella nostra persona, giustificando il tutto come naturale e quindi per forza di cose sempre nel giusto?
So che i dualismi servono solo (o almeno dovrebbero) a porre antipodi entro cui trovare la propria dimensione intermedia, ma qui la questione è delicata. Nel primo caso, anche se nuotare sempre contro la corrente risulta sfiancante a lungo andare, oltre che poco produttivo, ci si chiede se non vi sia qualcosa di ammirevole in questa tenacia a non lasciar cadere le illusioni e le cose, per lo meno prima che questa sfoci nella cecità assoluta. Nel secondo caso, il dubbio che s'insinua è che queste persone abbiano capito qualcosa di fondamentale circa la serenità; forse a discapito della coerenza, talvolta dell'etica (ma attenzione, anche quella è una cosa che si può perdere "naturalmente"), ma se queste persone arrivando alla fine della loro vita, possono dire di aver accettato serenamente ogni cosa che gli sia capitata, non forzando la mano agli eventi o al mondo per attecchire alle loro aspettative, il tutto non sembra -inquietantemente-quasi saggio?
Per me, con tutti i miei brandelli, asole e orpelli, il punto non è nemmeno "da che parte stare". Stare dalla parte di sè stessi, per cominciare, tendere al bene, lasciarsi spingere a largo dall'evolversi delle situazioni, continuare a nuotare se indietro si è lasciata una convinzione, andare a vedere cosa c'è oltre, fermarsi e nuotare contro corrente quando ci s accorge che la bussola è rimasta impigliata ad uno scoglio, tenersi stretta la voglia di conoscere il mondo e le persone, anche a costo di incaponirsi e legarsela al piede con una fune, senza che le esperienze negative intacchino la fame di vita, filtrandole con la lente del particolare e non dell'universale, raccogliere il senso della misura, del pericolo, del cattivo che, potenzialmente, alberga nelle cose, lasciar andare la paura, la facile tentazione a costruirsi un pregiudizio, tanto comodo da usare quanto lontano dalla verità che si sostanzia in ogni singola persona. Ed è difficile, perché questa non è una posizione mediana. Il risultato di queste scelte, proiettato su un grafico a lungo termine metterebbe il tutto al centro di questi due antipodi, ma nel quotidiano, in ogni singola situazione, ciascuna decisione va presa secondo il proprio sentire, valutando di volta in volta, caso per caso, persona per persona. A volte lasciarsi travolgere, lasciar andare qualche stringa che ormai non ci appartiene più si rivelerà la cosa giusta, altre volte bisognerà tener salde le proprie convinzioni a qualunque costo per non perderle nel turbinio di una tempesta.Quindi vale tutto e non vale niente? In pratica, si.Mantenere la regola del non crearsi alcuna regola è la cosa più difficile. Il bisogno di ordinare il caos del mondo e la tendenza a categorizzare sono difficili da controllare, sarebbe molto più semplice cedere all'istinto di crearsi regole per le situazioni e le persone che ci facilitino la vita e le scelte. Ma, fatta eccezione per le macrocategorie che includono il buon senso per cui, in macchina con uno sconosciuto alla 4 di mattina è meglio non salirci (o analoghe), io quando ne ho consapevolezza preferisco evitare. E' una gran fatica, a volte si teme di non saper leggere i segnali, a volte si passa troppo tempo a valutare una situazione che sarebbe facilmente bollabile come da evitare, ma la ricompensa, ciò che si ha in cambio dalla vita per questo certosino metodo che di certo non strizza l'occhio alla celerità, è qualcosa di impagabile.Ricchezza, questa la parola che mi sale alle labbra.Mi sento una persona ricca.
A volte ho la sensazione di vivere in un mondo a sé stante. Lo so, è una frase fatta, ma guardandomi intorno, ascoltando i discorsi delle persone, osservando i loro comportamenti, anche laddove posso trovare una certa specularità nelle giornate (al lavoro, con i colleghi per esempio), mi accorgo che le motivazioni che trovo per gioire, in fondo ad una giornata, sono tendenzialmente più numerose rispetto alla media. E lo dico non tenendo conto del mio personale livello di soddisfazione, felicità ecc, ma guardando a ciò che non sono la sola a vivere, a ciò che non è cosa mia ma è lì, fruibile da chiunque.Arrivo spesso a quel punto in cui non riesco più a spiegarmi, in cui sembra che io stia vaneggiando.Quel punto è ora.Mi succede quando mi avvicino al nervo delle cose.Perché se ora io dicessi che vedere i germogli ancora in forse ai rami degli alberi che costeggiano Rue F., è una cosa emozionante e che riesce a strapparmi un pezzo di carne per piantarci un attimo di gioia pura e indiscussa, verrei fraintesa. Ed è così, è una cosa che mi tocca, e che mi accorgo lasciare indifferente la maggior parte delle persone.Non sto dicendo che ci sono io e tutti gli altri, io sola e diversa e il mondo una massa grigia ed omogenea di persone più o meno uguali; so che ognuno vive in un proprio mondo, ha il proprio modo di sentire le cose. Quello che dico è che conosco pochissime persone che sanno essere felici delle cose piccole e che sono lì, a portata d'occhio ogni santo giorno. Perché anche il caffè con chiacchiera annessa rimandato da troppo tempo con un caro amico è una piccola cosa, ma è una cosa scelta, indotta, posticipata per i rispettivi impegni e poi realizzata; è ovvio che sia un'autentica gioia. Parlo di tutto quello che è già lì, degli alberi, del suolo, delle proprie gambe che funzionano, del barbone che ti sorride fuori dal supermercato e che è ancora lì, anche se ieri era un freddo cane.Tutte quelle cose lì, chi le vede?
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