Aspettando che Jonathan Coe appaia sul palco della Sala Petrassi, al Parco della Musica di Roma, per un’intensissima giornata conclusiva di Libri Come (festival del libro e della lettura, giunto alla sua terza edizione http://www.auditorium.com/eventi/5178078), mi metto ad ascoltare tre signore che sono sedute nella fila dietro la mia. Sì, lo so, origliare i discorsi altrui non è una bella cosa, ma per chi scrive è una specie di droga, per me almeno lo è, senza contare che spesso mi metto ad origliare anche me stesso, quindi sono un sostenitore della par condicio in fatto di violazione della privacy. Dedicando a quest’ascolto voyeuristico anni di esperienza, ho sviluppato anche un discreto sonar che mi permette di spostarmi di bocca in bocca alla ricerca di qualcosa di “diverso” da cui partire per costruire una storia. Evitando subito chi, in attesa di una presentazione di un libro o di un incontro con un autore, disperde energie nell’esalazione di parole come “solipsistico”, “didascalico” e “autoreferenziale”, m’immobilizzo di fronte a “sindrome premestruale”, “vibratore” e “totale inabilità degli uomini a comprendere ciò che piace davvero alle donne”.
Le mia mani sono corse al taccuino che avevo già spalancato per ricevere le perle di saggezza scrittoria, per tuffarsi invece in un abbozzo di trama, quand’ecco che le luci si spengono e Jonathan Coe appare sul palco con la sua aria da bravo ragazzo inglese, insieme ad un librone che ad occhio stimerei in almeno 500 pagine (altro talento che si sviluppa a forza di letture compulsive), rovinando l’incipit del mio momento creativo. Peccato.
Tento allora di completare al buio le frasi di raccordo della trama che già la mia mente aveva rubato al discorso delle tre signore dietro di me e mi preparo a scoprire che il nuovo libro di Jonathan Coe non è un romanzo, ma una biografia, anzi nessuna delle due. Niente di nuovo, Coe si è già cimentato con alcune accattivanti novel-bio (Humphrey Bogart e James Stewart), donando loro una piacevole cornice da romanzo. In questo caso però, in Like a fiery elephant (Come un furioso elefante – La vita di B. S. Johnson in 160 frammenti, Feltrinelli, 2011) Coe si cimenta con la storia di un altro scrittore: Bryan Stanley Johnson (eclettica figura del panorama artistico e letterario inglese fra gli anni ’60 e ’70 http://en.wikipedia.org/wiki/B._S._Johnson). Passionale, fragile, innovativo e per questo spesso contradditorio, in lotta contro se stesso e contro un establishment che non gli riconobbe (almeno in vita) il ruolo che meritava nell’ambiente letterario britannico; insomma il protagonista perfetto di un romanzo di Jonathan Coe, tanto da far pensare al “suo” Micheal Owen, scrittore incapace di arrivare al successo e per questo frustrato e disilluso, protagonista della Famiglia Winshaw. Un personaggio che, come ha ricordato lo stesso Coe, è l’emblema di quella vulnerabilità necessaria a sentire con maggiore enfasi tutte le sollecitazioni con cui il mondo ci colpisce, tramutandole in altrettanti mondi da cui far dipanare le proprie storie. Ecco che il mio cervello si sta convincendo della necessità impellente di acquistare questo poderoso romanzo-biografia, quando si ritrova in una diversa sala, di fronte a Stephan Merrill Block, intervistato da Paolo Giordano. “Funzionare nel disastro e finire in bellezza”. La Frase che Stephan ha trovato su un’agenda regalata a sua nonna anni prima. L’unica frase presente su quell’agenda seguita da centinaia di pagine vuote. E da qui che l’autore statunitense di Io non ricordo è partito, cercando di ricostruire il passato della sua famiglia, chiedendosi cosa avesse portato sua nonna ad appuntare quella frase. Solo quella frase e nient’altro. Che tipo di dolore, privazione, desiderio, si nascondeva dietro quell’affermazione. Così Merrill Block ha riempito le 384 del suo nuovo romanzo (La tempesta alla porta – Neri Pozza, 2011), ambientandolo in un ospedale psichiatrico di Boston, molto simile a quello dove suo nonno è stato effettivamente ricoverato e a quello fuori dal quale sua nonna ha dovuto continuare a vivere, da sola con quattro figlie piccole, esposta agli occhi della gente. Con una disarmante disponibilità ad aprire se stesso e le sue memorie al pubblico di Libri Come, apparentemente privo della necessità di dover in tutti i casi “tenere la scena”,Merrill Block ha raccontato come vivere in un perenne stato di “joy of language”, la sua passione vorace e insaziabile per la lingua e le sue infinite sfumature, cui sembra dedicare senza condizioni o limitazioni il suo tempo.
L’entusiasmo per il suo lavoro e per la sua ricerca della “parola giusta” per riannodare i fili della memoria (sua o altrui) è stato palpabile e di questo il pubblico di Libri Come gli sarà stato grato. Anche il mio cervello lo è stato. Ed ha cominciato a ripercorrere le pagine del suo romanzo, cercando di visualizzare le varie annotazioni a margine, le domande, le impressioni, con l’obiettivo di rileggerle alla luce della prima conoscenza con l’autore.
Ma ora bisogna ritornare nella sala Petrassi, c’è Baricco che aspetta o meglio non aspetta, infatti ha già iniziato il suo show, quando entro nella sala Petrassi alle 19:05, cercando di colmare il divario fra la mia mente e le mie gambe nel minor tempo possibile. Ed eccolo, Alessandro Baricco, da solo al centro del palco, la sala piena come mai, la gente che ride. Sì, perché da tempo Baricco scrittore, ha scoperto Baricco mattatore e regista dei suoi incontri con il pubblico, capace di far ridere a crepapelle le persone parlando di Flaubert e Guareschi, coppia quanto mai bizzarra, ma funzionale allo scopo della serata: raccontare perché ha cominciato a leggere e poi a scrivere. Bene, la notizia è che Alessandro Baricco ha cominciato a leggere costretto da sua sorella che non aveva voglia di fare i compiti, delegandoli coercitivamente a suo fratello, che, chiuso nella sua stanza, rideva a crepapelle leggendo i testi di Guareschi. Sembra poi che l’obbligo si sia tramutato in piacere, necessità di fuggire dalla propria realtà per viverne altre più interessanti, grandiose o giocose in parallelo. Così Baricco ci spiega che la lettura è prima di tutto consolatoria, poi rivoluzionaria (portandoci a non sopportare più ciò che viviamo, se confrontato con ciò che leggiamo) e alla fine capace di farci comprendere meglio la realtà, tentando addirittura, se ci dice fortuna (Baricco ha utilizzato un temine “anatomico” più immediato e breve che potete facilmente intuire), di ottenere quello che desideriamo, senza pensare per un solo momento che potremmo anche non riuscirci. Fu così che il Baricco lettore, divenne Baricco scrittore, tentando di soddisfare in ogni suo scritto non soltanto l’esigenza animale di fare ciò che si desidera (scrivere), ma cercando di riempire l’esercizio dell’invenzione di un contenuto. Un tentativo di comprendere meglio la realtà e perché no, di spiegare il proprio punto di vista agli altri, a quei lettori cui bisognerebbe sempre ricordare di rivolgersi. E così fra letture di Salinger e Guareschi, Baricco scrittore divenne il Baricco insegnante, dispensatore di verità (o almeno di una verità), ruolo che mi è sembrato gradisca particolarmente e nel quale, ce l’ha ricordato anche una sala gremita e osannante, riscuote sempre maggiore successo.
Ed eccomi fuori. L’evento è finito. Tutti gli autori torneranno a casa dopo cene interminabili e interviste indigeste. Io sollevo lo sguardo. Decine di foto di scrittori. Le osservo, mentre percorro il dedalo di corridoi che costeggia la cavea intorno alla quale si erge il Parco della Musica di Renzo Piano.
Nothomb, Gordimer, Fo, Carofiglio, Calvino, Mazzucco, Szymborska, Auster, Murakami, Smith, Terzani, questi almeno quelli che ho riconosciuto. Volti che dondolano dal soffitto. Scrittori che ti scrutano, i loro occhi su di te e non i tuoi sulle loro parole, in una corsa che, se non fosse stato per la folla, avrei proprio voluto fare attraverso quei corridoi, come nel film The Dreamers di Bertolucci fra i saloni del Louvre, per vedere se quegli occhi potevano congiungersi, quelle menti sovrapporsi, tutte quelle sublimi idee entrare in me, senza più il bisogno delle pagine. Ho allungato il passo, questo sì, avanti e indietro. Che un effluvio scrittorio possa spargersi ben oltre questa giornata, fissandosi sulla mia retina, memento e desiderio per un prossimo libro?
Non si sa mai. Buona corsa.
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