Devo ammetterlo: Buddha mi ha insegnato un sacco di cose.
E non sotto le fronde di un albero di śīriṣao all'ombra di un pāṭali; ma al MAO, il Museo di Arte Orientale.
Lì ho imparato che il Buddha femmina si chiama Tārā, stroncando così sul nascere quel facile umorismo che è solito attraversare la mente maliziosa degli uomini; ho scoperto che esistono diverse tipologie di Buddha e, sempre grazie a lui, mi sono state rivelate le prime posizioni della danza classica.
Lo so, può risultare bizzarro.
Più di ogni altra cosa, però, devo la mia gratitudine a Buddha per aver strappato via, come l'equipaggio di un peschereccio farebbe con un naufrago in balia delle onde, la mia mente sempliciotta dall'abisso dell'ignoranza.
Anni fa, durante la mia prima visita all'inaugurazione, ammirai con grande interesse numerose statue i cui cartellini riportavano, oltre al periodo storico e alla località di origine, la didascalia Buddha assiso.
Ero affascinato: riuscivo a immaginarmi questo antico popolo, un po' come gli Assiri, o gli Ittiti, scolpire quelle opere d'arte in epoche tanto remote.
Solo quando, affiancata a una di esse, vidi un'altra statua la cui descrizione riportava la dicitura Buddha in piedi, raggiunsi l'illuminazione, andando a ripescare quella conoscenza già presente nella mia memoria ma che, per chissà quale altro motivo se non la stupidità, fino a quel momento era andata alla deriva nell'oblio.