Si è affermato un «principio elementare», afferma Scalfarotto promotore della richiesta. «È un diritto che spetta a tutti gli italiani», scrive su Twitter Nichi Vendola.
Si parla del si della Camera del riconoscimento del godimento dell’ assistenza sanitaria ai conviventi gay dei deputati. C’è chi lo vede come un piccolo, ma significativo, passo verso il riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali. Un passaggio quasi burocratico, per garantire a Ivan Scalfarotto di godere dell’estensione della polizza sanitaria al suo compagno Federico, alla pari di tutti i colleghi che hanno moglie o convivente donna. Ma un passaggio tutt’altro che scontato, tant’è che la Lega vota contro e anche i 5 Stelle si astengono. Non è certo una decisione storica e non le si devono attribuire significati simbolici, afferma il questore pidiellino Gregorio Fontana: “ la Camera non ha riconosciuto le coppie gay bensì solo esteso ai parlamentari la disciplina già prevista per i dipendenti della Camera fin dal 2001”.
Così siamo tutti contenti, perfino Giovanardi che ha votato a favore della proposta. Ma siamo anche sospettosi, che se ha votato a favore Giovanardi ci deve essere per forza del marcio in questo sia pur timido riconoscimento di un diritto elementare.
Si, c’è qualcosa di profondamente ingiusto in questa ferita della democrazia spacciata per conquista, in questo graffio alla civiltà ostentato come sospirata espugnazione, se siamo di fronte alla forma più regressiva e illusoria dei diritti, quando diventano elargizione, prerogativa, privilegio, quando si tagliano a fettine la libertà e l’autodeterminazione, per concederne un po’ a segmenti selezionati per appartenenza, fedeltà, ubbidienza, cerchia, ordine, strato. Quando si appagano – simbolicamente e dimostrativamente – le richieste dei pochi, dei singoli, degli affini, tacitando o prorogando quelle dei molti. E se l’oculata somministrazione di quella concessione, riguarda, e per un pubblico ben definito, il riconoscimento di una titolarità economica, ben lontana dall’approvazione giuridica e morale di una relazione fondata sull’amore, il rispetto, l’affetto, la solidarietà. Nella buona e nella cattiva sorte, in salute e malattia.
È già qualcosa si dirà, prima o poi questo frammento di un discorso di uguaglianza verrà esteso, altri potranno goderne, insieme ai nostri rappresentanti, quelli più trasparenti e coraggiosi che ammetteranno inclinazioni non ancora largamente accettate.
Si è probabile che ci guadagnino loro, che ci guadagni, forse, probabilmente, prima o poi, chi esige legittimamente la facoltà di avere il riconoscimento giuridico di tutti i legami, uguali davanti alla legge e alla società. Ma non ci guadagna l’autorevolezza delle nostre istituzioni rappresentative, non ci guadagna un ceto politico che si sente èlite ed invece è solo enclave, cerchia chiusa e appartata, ceto lontano e preoccupato della sua autoconservazione, della tutela della sua diversità superiore, della sua “specialità”.
Non è questo che si intende per “dare l’esempio”, quando un principio elementare di uguaglianza diventa diritto esclusivo, in attesa di scendere per li rami, quando gli inclusi, pochi, si rallegrano di un beneficio dal quale, troppi, sono esclusi. L’esempio invece consiste nella rinuncia a un prerogativa finché non diventa diritto per tutti, universale, indiviso, nostro.