Qualche tempo fa, con la voglia di ingannare il tempo, ho cominciato a sfogliare uno di quei giornali al femminile, che ultimamente hanno fatto progressi arricchendosi di news e servizi interessanti. Parlo di “A”, molto più sui generis della solita rivista femminile. Tra i suoi collaboratori trovano spazio Marco Travaglio e Mario Giordano. Ed è proprio su quest’ultimo nome che mi voglio soffermare. Il “grillo parlante” questa volta mi ha colpito perché nella sua usuale rubrica intratteneva un argomento del quale, da un anno a questa parte, non si è affatto parlato. Lo stesso Mario Giordano in apertura spiega che di suicidi non bisognerebbe parlare. Un modo per evitare un’ingrata emulazione. Ma non è questo il punto, perché in questo caso, il fatto grave, avrebbe dovuto essere strombazzato, malgrado la tragedia, e invece è finito nel dimenticatoio, tradendo ancora una volta chi ha pensato che con un gesto così estremo, si potessero scuotere le coscienze. Oltre che le lobby di potere dentro l’università italiana. Quel sistema di baronaggio che né la politica passata, né quella futura, né tantomeno questo insulso governo di ladri e puttane raccomandati, ha voglia di estirpare.
Sulla lapide c’è scritto Norman Zarcone, 27 anni, laureato in filosofia con 110 e lode, due volte; dottorando in filosofia del linguaggio all’Università di Palermo, volato dal settimo piano dell’ateneo nel settembre 2010. E’ quasi passato un anno, e adesso che mi è venuto sotto gli occhi il foglio strappato da quella rivista femminile, mi è sembrato un dovere necessario ricordarlo così. Perché nessuno, ma proprio nessuno, in questo anno che sta per chiudere la sua parabola estiva, si è preoccupato del perché di un tale suicidio. Dai soliti talk show di grido, non abbiamo avuto nemmeno una parola.
Troppo scomodo anche nella morte, come tutti i “bravi”, Norman Zarcone decide di prendersi la libertà di morire in una società che non ti da la libertà di scegliere il lavoro, che non ti da la libertà di fare ciò che ami, che non ti permette il libero sfogo delle passioni, che non da la libertà del merito, che non ti da la libertà di costruire il futuro, né di fare progetti di famiglia o di crescita professionale. Norman ha scelto la stabilità della morte di fronte alla precarietà dell’esistenza e di una generazione che sembra non avere speranza. Come potremmo giudicarlo ? Io dico, giudichiamo noi stessi, che stiamo a guardare, che scarseggiamo di coraggio, di quell’audacia che ci permetta ora di schiodarci dalle sedie e riprenderci la libertà. Sulle piazze, per le strade, dalla rete, sui giornali, dalle radio, in corteo, dietro le porte dei ministri, nelle aule, non dico che sia facile né che non ci sia qualcosa da perdere, ma i modi ci sono. Pur di scrollarsi di dosso questa sordida indifferenza democratica.