Testi di Charles, Trainspotting, Manolo Manco, Luca Bonetta e Ciccio Russo
Charles: dopo una intro del genere, il crescendo di pathos, i suoni distorti di sottofondo, evocativi di antri infernali che si aprono davanti ai tuoi occhi, anticristi che sgozzano capre e via dicendo, sarebbe stato lecito aspettarsi una bordata furiosa di N randellate di mazze ferrate arrugginite sulle gengive tipo Blinded by Fear. E invece, mentre si rizzano i peli sulle braccia in attesa che uno shock disumano ti prenda allo stomaco, l’attacco di Death and the Labyrinth, per quanto potente assai, mi è sembrato fin dal primo ascolto come un qualcosa di non abbastanza devastante. Così il resto del disco. Ma, ragazzi, stiamo parlando di sottigliezze, tutto sommato. Cioè, provo a inquadrare la cosa: qui, tra noi in redazione, non si è mai parlato approfonditamente di Slaughter of the Soul perché semplicemente apparteniamo più o meno tutti a quella generazione che, nata a cavallo dei primi ’80, è cresciuta succhiando conoscenza e sapere dai perfetti seni di cotale capolavoro senza pari. Quindi è superfluo ribadire l’importanza formativa che ha avuto per noi tutti come sarebbe superfluo stare a ripetersi quanto è stata importante la pasta asciutta nella nostra vita alimentare di italiani medi. E nemmeno si può evitare di farci su un discorso legato al passato perché quando uscì Slaughter noialtri ci stavamo approcciando più o meno tutti al metallo proprio in quel mentre e, dopo di esso, niente è stato più lo stesso. Tipo, per me resta e resterà il disco migliore degli At The Gates come Fear of the Dark, al di là di tutte le considerazioni possibili, è e resterà, per gli stessi motivi, il migliore dei Maiden, quello a cui sono più legato, di conseguenza il migliore per me. E il fatto che, dopo molti anni di silenzio da parte loro, le mie aspettative fossero molto elevate, significa che Tompa & Co nella mia testa non avevano grandi margini di errore e non potevano fare affidamento su nessuna condizione attenuante particolare. Che senso avrebbe avuto, altrimenti, tornare dalla tomba dopo tanto tempo e fare una porcata? La porcata non l’hanno fatta. Semplicemente è venuto fuori un qualcosa di accettabile, né più né meno che accettabile, a tratti anche troppo lontano dalle attese, ma pur sempre accettabile, considerando tutto quello che c’è da considerare sulla loro storia, ciò che è venuto dopo e grazie a loro e via discorrendo. Ciò significa che forse, pur di riassaporare quelle sensazioni originali mi bastava, come è avvenuto, un ritorno degli At The Gates e basta, piuttosto che randellate sulle gengive, calci volanti, madonne impalate e capocciate sul naso. Va bene così, dai.
Roberto ‘Trainspotting’ Bargone: su At War With Reality sono completamente d’accordo con l’ottimo Charles qui sopra, quindi non vi ammorbo con ulteriori chiacchiere. Faccio giusto un paio di precisazioni:
1-Per me Slaughter Of The Soul è il miglior disco degli ATG anche a mente fredda, prescindendo da considerazioni soggettive: quindi il discorso di Fear Of The Dark con me non fila perché non si sta parlando solo di un album bello perché ci sono legato, ma di uno dei due-tre dischi migliori mai usciti dalla Svezia (un altro è The Somberlain, ça va sans dire).
2-Alla fine, a me At War With Reality non basta. L’ho ascoltato una quindicina di volte per potermene fare un’opinione, ma non credo avrò mai più voglia di sentirlo e conseguentemente andrà al più presto via dal mio iPod per fare spazio a qualche gruppo cascadian black a caso.
3-Nonostante questo sia un disco dignitoso, è comunque un’occasione per ripensare alla consequenzialità disco/tour, ovvero: è ancora necessario costringere una band a incidere un album come scusante per fare un tour? Questo ragionamento, ottusamente applicato anche a gruppi creativamente già finiti come è la quasi totalità delle vecchie glorie, ci ha regalato orrori come Still Hungry dei Twisted Sister oppure dischi come appunto At War With Reality, che, se pure non arrivano a essere una macchia indelebile nelle discografie di gruppi storici, quantomeno li trascinano giù dall’empireo in cui li avevamo giustamente collocati, scoprendo il velo di Maya sul loro mito.
Manolo Manco: quando una delle tue band preferite, a quasi 20 anni di distanza da un ultimo disco ufficiale che era stato seminale per il metal tutto, annuncia il ritorno sulle scene, il rischio di uscirne con le ossa rotte nel confronto con il capolavoro di cui sopra è altissimo (da qui la mia tendenziale contrarietà alle reunion). I membri degli At The Gates, però, non erano rimasti con le mani in mano e in questi anni hanno militato in formazioni di alto livello, quindi non sono giunti fuori allenamento alla registrazione di At War With Reality. Il successo degli At The Gates è legato in parte alle intuizioni musicali, in parte al weltschmerz che trasudavano le vocals graffianti e i testi di Tompa Lindberg. Se, in questo nuovo disco, si fossero avventurati troppo nella direzione della sperimentazione musicale, sarebbe stato concreto il pericolo di produrre qualcosa di irriconoscibile, rendendo inutile la stessa operazione di reunion. Sul lato del mal di vivere, ormai sono tutti uomini maturi, quindi probabilmente anche la visione del mondo che ha contraddistinto i dischi degli anni ’90 si è attenuata o modificata. Quello che restava agli At The Gates era registrare un clone di Slaughter Of The Soul, sperando di non sfigurare troppo rispetto a un disco così monumentale, oltretutto in un momento in cui il mercato della musica estrema è molto saturo. E invece si sono spinti molto oltre: hanno tratto ispirazione da tutta la loro discografia (non solo dalla pietra miliare del 1995) e hanno realizzato un disco sì autocelebrativo ma assolutamente non forzato: se fosse stato realizzato nel 1996-1997 sarebbe stato il naturale successore di Slaughter. Riff di classe cristallina, vaghi accenni prog, arpeggi piazzati al punto giusto, testi acuti e stimolanti, artwork ispirato al realismo magico, un’ulteriore cura per il lato melodico e per le atmosfere (già caratterizzante la discografia precedente), produzione eccelsa nel non replicare il suono del marasma di band metalcore, pulita ma non patinata, cucita perfettamente sulle trame sonore degli svedesi, che hanno sfoggiato la perizia dei maestri assoluti nel riprendere un discorso interrotto bruscamente due decadi fa, per segnare un degno punto conclusivo alla carriera. Voto 8, a patto che non venga loro in mente di registrare un seguito, il quale depotenzierebbe la logica di questa release.
Luca Bonetta: recensire un disco come questo non è un compito facile: entrano in gioco l’affetto per una band che ti ha accompagnato per anni in quella che è molto più di una semplice passione, l’importanza a livello storico della band stessa che, nel bene e nel male, ha influenzato migliaia di act successivi e una serie di altre variabili che inevitabilmente cambiano da persona a persona. È lecito chiedersi che aspettative nutrissi nei confronti di un nuovo disco a nome At The Gates dopo ben 19 anni di assenza dagli studi, ed è ancor più lecito sentirsi rispondere che le mie aspettative per quanto alte non erano ai massimi livelli. Diciannove anni di stallo possono significare molto; i Carcass ci hanno insegnato che si può tornare dopo decenni calciando culi a man bassa mentre decine di altri gruppi incarnano alla perfezione il concetto di demenza senile, con dischi post-reunion indegni del nome che portano. Non un capolavoro quindi, ma nemmeno una cacata atomica, questo è ciò che mi aspettavo da At War With Reality ed è esattamente ciò che ho ottenuto. La title-track lanciata come singolo mi fece sperare positivamente: diretta e con il tipico marchio di fabbrica di Tompa e soci. Il resto del disco fortunatamente si mantiene su quei livelli; rispetto a Slaughter Of The Soul si nota forse una minore attenzione alla velocità pura in favore di composizioni più cadenzate e (passatemi il termine) marziali, sarà che ormai anche loro hanno un’età o salcazzo che altro ma in fondo se l’idea di base è buona cambia poco il modo in cui la si mette in pratica. Un ritorno gradito insomma, chissà che non sia l’inizio di una seconda primavera. Nel frattempo, io me li godo e li riaccolgo con piacere.
Ciccio Russo: i primi a voler svicolare l’improponibile paragone con Slaughter Of The Soul, autocitazioni – non si sa quanto involontarie – a parte (ho sentito il giro di Into the dead sky in almeno un paio di pezzi), sono gli stessi At The Gates. Stilisticamente dalle parti di Terminal Spirit Disease, At War With Reality non cerca di essere nulla più di quello che è: un dignitoso amarcord (è stato registrato ai Fredman eccetera) che riscalderà i cuori dei trentenni senza incendiarli, a esclusione di quella The conspiracy of the blind che è il solo vero rimando al capolavoro del 1995 ed è pure l’unico vero sussulto di un album che sceglie di mantenersi su un cauto basso profilo. Non poteva essere altrimenti, anche per ragioni banalmente anagrafiche. I Carcass con Surgical Steel ci fecero saltare dalla sedia perché le loro sono armi che si affinano con l’età: la cura dei dettagli, il cinico sarcasmo. Slaughter Of The Soul era frutto di un’urgenza, di un’ipersensibilità, di una capacità di tradurre la sofferenza in musica che non sono replicabili una volta raggiunta la maturità. Non che lo stare male sia una prerogativa della gioventù. Ma il disagio di un ultracinquantenne che vede, lenta ma inesorabile, avvicinarsi l’ombra della morte come Tom G. Warrior sta dall’altra parte dello spettro emotivo. Slaughter Of The Soul ebbe un impatto così potente sulla mia generazione perché chi all’epoca era adolescente non poteva non stabilire un forte legame interiore con quel disco o non trovare catarsi nel cupio dissolvi che imbeve i testi. At War With Reality non poteva essere tutto questo. Sono più vecchi loro e siamo più vecchi noi.
Il brano recitato nella (splendida) intro in spagnolo è tratto da De heroes y tumbas dell’argentino Ernesto Sabato.