Costanzo Preve è un filosofo piemontese, formatosi tra Parigi e Atene, e tra i maggiori studiosi italiani del marxismo. I suoi studi, ma anche la sua passione politica che lo spinse ad una lunga militanza, si sono tradotti in un gran numero di articoli e saggi su una pluralità d’argomenti, tra in quali in anni recenti anche la geopolitica. Fin dai primissimi numeri è un frequente contributore alla rivista “Eurasia”. Andrea Bulgarelli l’ha incontrato per noi a Torino, il 26 novembre scorso, per discutere con lui partendo dai più recenti sviluppi politici in Italia.
In un suo libro (La quarta guerra mondiale, 2008, Edizioni all’insegna del Veltro) scrive: «La quarta guerra mondiale in corso è una guerra di tipo geopolitico-culturale condotta dall’impero messianico USA contro tutto il resto del mondo ‘ribelle’» (p. 143).
Tuttavia gli ultimi sviluppi della crisi economica sembrano aprire un nuovo scenario: nel mirino non ci sono più solo “Stati canaglia” dotati di propri sistemi politici (socialismo arabo, populismo latino-americano, islamismo), ma anche Paesi (tra i quali il nostro) pienamente inseriti nella sfera di influenza statunitense e nel capitalismo occidentale, che vengono attaccati non in nome dell’ideologia dei diritti umani ma di parametri economici “neutri” quali il debito pubblico e lo spread. Come interpreta questa situazione?
Sebbene abbia scritto il mio libro La quarta guerra mondiale già quattro anni fa, ritengo che le tesi di fondo siano sempre più attuali e che gli avvenimenti degli ultimi quattro anni (per esempio la guerra di aggressione alla Libia, le minacce alla Siria e all’Iran, la tensione verso la Cina come antagonista strategico, il desiderio di tenere basi permanenti in Afghanistan) le abbiano rafforzate. La domanda non è di facile risposta, perché il vero dilemma (a cui personalmente non so rispondere) è questo: l’attacco all’euro ha dietro una volontà di tipo geopolitico strategico americano di indebolimento della moneta di riserva alternativa al dollaro, e quindi è, seppur con qualche passaggio, teleguidato politicamente, oppure al contrario l’Europa è completamente sottomessa all’America (pensiamo a Sarkozy, Merkel e Cameron) e l’attacco all’euro non si presenta come una volontà politica strategica, ma come il meccanismo implicito di una globalizzazione liberista, che in quanto tale mira alla distruzione del modello europeo di capitalismo, ritenendo il welfare insostenibile (e naturalmente dietro la parola “insostenibile” ci sta la volontà di aumentare la massa circolante di moneta che deve servire alla speculazione finanziaria)? Io vorrei rispondere a questa domanda, ma onestamente non so farlo, perchè non ho elementi sufficienti. Non so quindi dire se si possa configurare un’aggressione strategica all’euro da parte di una forza che non può che essere la forza del dollaro americano, oppure se si tratta di una sorta di automatismo dei mercati internazionali (al proposito, è interessante notare come le agenzie di rating mettano sotto processo la stessa economia americana). Sono più propenso verso la seconda ipotesi (ma non ho elementi per escludere la prima) in base alla mia interpretazione del “capitalismo speculativo” come meccanismo incontrollabile, ma preferirei lasciare la domanda in sospeso. A questo proposito, si tende a pensare che gli arcana imperii, cioè i segreti del potere, siano tipici di un mondo pre-borghese e pre-capitalistico. In realtà, mai come ora siamo di fronte agli arcana imperii, ovvero al segreto sulla elaborazione delle decisioni strategiche. Su questo punto, quando La Grassa consiglia di interpretare l’evoluzione della borghesia imprenditoriale come agente strategico della riproduzione capitalistica coglie un fatto reale, del tutto indipendentemente dal giudizio negativo (che io non posso condividere) sulla filosofia, l’umanesimo e l’idealismo. Gli arcana imperii del Medioevo riguardavano generalmente la decisione delle guerre, che non veniva esplicitata e rimaneva all’interno di piccoli gruppi, e questo non è cambiato, perchè ad esempio la Prima guerra mondiale fu decisa da piccoli gruppi, anche se per l’interesse di gruppi di entità maggiore. Tra gli arcana imperii della politica americana c’è il sapere a che punto il rapporto con l’Europa sia condizionato dalla competizione dollaro-euro, e segnalo questo problema ad economisti e politologi la cui competenza è maggiore della mia.
La caduta del governo Berlusconi, che ha descritto (cfr. Berlusconeide, disponibile in rete) come la fine di una anomalia, si inserisce a suo avviso in un contesto più generale, il commissariamento della politica da parte dell’economia. Agenti di questo processo non sarebbero più i ceti politici professionali, subordinati ma evidentemente inaffidabili, bensì i tecnici e gli “specialisti”, per lo più cooptati direttamente negli apparati universitari.
Cosa pensa del matrimonio politico tra le oligarchie capitalistiche e quello che lei chiama “clero universitario”?
Ho scritto da tempo che il sistema medioevale europeo, da distinguersi da quello giapponese e dal modo di produzione asiatico in India e in Cina, utilizza un clero (in questo caso un clero religioso) come elemento di mediazione tra la classe dirigente dei nobili e dei signori feudali e l’immensa massa dei servi della gleba, degli artigiani, e di quello che in seguito fu chiamato Terzo stato.
Con l’illuminismo la funzione del clero venne meno, perché la legittimazione dell’insieme sociale passò dalla religione a un impasto di economia, cultura e politica intessuto su due fondamentali basi, il mito del progresso e il mito dell’autoregolazione del mercato da parte della mano invisibile. È chiaro che non era più necessario un clero che mediasse tra dominanti e dominati tramite la religione. Il clero doveva effettuare la sua funzione di mediazione attraverso una nuova legittimazione, a metà fra filosofia politica, ideologia del progresso e dell’economia (ovvero il mito del mercato autoregolato). Il vecchio clero, quello cattolico, protestante e ortodosso, fu derubricato ad assistente psicologico di anime in pena e a gestore simbolico dei riti di passaggio (sostanzialmente la nascita, la morte, la malattia ed il disagio sociale). Il nuovo clero insediato lo distinguerei tra clero regolare e clero secolare. Il clero secolare è fondamentalmente composto dai giornalisti e dagli esperti dei media, ovvero il circo mediatico, mentre il clero regolare (che corrisponde agli ordini dei domenicani, dei francescani e dei gesuiti) sono i professori universitari. Questo avviene all’interno di quello che Baumann ha chiamato “decadenza degli intellettuali” da legislatori ad interpreti, o meglio ad esperti tecnici di settori limitati, in quanto la totalità è completamente nelle mani della riproduzione anonima capitalistica, che diventa una sorta di fatalità sovrapposta al mondo. Non dimentichiamo che la parola “scienziato” nasce solo nell’Ottocento (perché prima non si parlava di scienziati, ma di filosofi naturali), così la parola “intellettuale” nasce a fine Ottocento, a meno che il concetto non venga esteso, in maniera secondo me arbitraria, e vengano considerati “intellettuali” i tragici greci, il gruppo di Mecenate con Orazio e Virgilio, oppure gli intellettuali dell’età comunale del Dolce stile nuovo. Secondo me questa estensione è arbitraria, per cui sono favorevole a chiamare “intellettuali” solo un gruppo sociale emerso alla fine dell’Ottocento. Il primo grande studioso del movimento socialista che mise in dubbio la funzione positiva degli intellettuali come organizzatori del punto di vista delle classi subalterne fu Sorel, e lo fece in maniera scandalosa. Il suo essere considerato “confusionario” perché parlava contemporaneamente a sinistra e a destra non era altro che una conseguenza del fatto che lui già allora usciva dai limiti del politicamente corretto del suo tempo. Il fatto che collaborasse sia con l’Action française che con la rivista Le Mouvement socialiste è sintomo superficiale di un elemento profondo, cioè la negazione dell’identità dei gruppi intellettuali di sinistra. Sorel è il primo esempio di socialista non di sinistra. Questo fatto sfugge alla maggior parte degli analisti soreliani, a mio parere perché è ritenuto troppo scandaloso.
Riassumendo, il punto importante è che gli intellettuali sono un gruppo sociale, ed è un errore considerarli come un aggregato di atomi sociali portatori di libero arbitrio e di competenze, perché se fosse così saremmo tutti intellettuali, in quanto l’intelletto umano è per fortuna distribuito in tutti gli individui. Evidentemente, gli intellettuali sono un gruppo cui è affidato un mandato di mediazione fra le idee dominanti di riproduzione sociale e il modo in cui queste idee vengono trasmesse ai gruppi dominati, per cui condivido la teoria di Sorel, secondo la quale gli intellettuali sono strutturalmente al servizio del potere. La grande obiezione che si può muovere a questa tesi è quella di Gramsci e di Lenin, per i quali gli intellettuali sono gli unici in grado di organizzare il punto di vista delle classi dominate, le quali hanno bisogno di questa mediazione per diventare classi dominanti. A lungo ho creduto a questo, ma adesso non ci credo più, proprio a causa dell’integrazione dei gruppi intellettuali tramite la “attrazione magnetica” delle classi dominanti. Secondo me questo è il punto fondamentale. Personalmente per capire i gruppi intellettuali odierni mi ispiro a due fonti. La prima è quella del sociologo francese Bourdieu, che ha definito, secondo me correttamente, gli intellettuali come un gruppo dominato della classe dominante. Secondo me questa formulazione è molto felice. Gli intellettuali fanno parte della classe dominante, perché posseggono un capitale intellettuale che possono spendere e valorizzare, ma per poterlo valorizzare devono venderlo sul mercato, e non possono che venderlo alle classi dominanti stesse, le quali funzionano da filtro per lo spazio pubblico, selezionando chi può accedervi e chi non può accedervi. In questo senso gli intellettuali sono un gruppo dominato della classi dominante, quella dei capitalisti industriali e finanziari.
La seconda posizione è quella dei sociologi francesi Boltanski e Chiapello, i quali, in modo secondo me molto intelligente, hanno sostenuto che la sinistra che conosciamo sia nata a fine Ottocento a partire dall’alleanza instabile tra la critica economico-sociale all’ingiustizia del capitalismo e una critica culturale-estetica all’ipocrisia della borghesia (anche se Boltanski e Chiapello non distinguono tra borghesia e capitalismo, e in questo modo si interdicono la comprensione di ciò che loro stessi hanno scoperto). Dopo il Sessantotto quest’alleanza si è rotta, e le classi dominate in Occidente sono rimaste senza intellettuali, perché le richieste di liberalizzazione dei costumi che gli intellettuali avevano rivolto alla borghesia per circa 100 anni sono state soddisfatte ampiamente all’interno del capitalismo. Ora, se questo è vero, e in parte è vero, Baumann ha colto il punto fondamentale, per il fatto che oggi il capitalismo ha bisogno di una sorta di “fondamentalismo illuministico”, che non ha più la funzione emancipatrice del vecchio illuminismo, ma semplicemente una funzione di rigorosa laicizzazione e secolarizzazione del sapere sociale. Esso trova nelle caste universitarie il suo clero regolare e nelle caste giornalistiche il suo clero secolare. Il fatto che il governo Monti si sia rivolto direttamente a degli intellettuali specialisti nel campo dell’economia, del diritto e delle scienze sociali è assolutamente ovvio e chiaro. Oramai l’intellettuale filosofo non ha più il ruolo che hanno avuto a suo tempo Croce, Gentile e Gramsci. La filosofia è ridotta a dei riti di appartenenza limitati all’interno del sapere universitario, in cui deve dire che il mondo non ha senso, che l’Essere non esiste, riducendosi fondamentalmente o a gnoseologia (cioè epistemologia del sapere scientifico), oppure a delle forme di disincanto (pensiamo al francese Lyotard e al tedesco Sloterdijk). Quindi io penso che il clero universitario oggi sia un clero di servizio. Perché un clero di servizio? Perché ha introiettato completamente la riproduzione capitalistica come necessità storica intrascendibile, e ciò si può chiamare in vari modi, “gabbia d’acciaio” in senso weberiano o “dispositivo della tecnica” (Gestell) in senso heideggeriano. In ogni caso, gli intellettuali sono al servizio di una divinità infinitamente più dispotica e sanguinaria di quello che poteva essere il Dio medioevale, una divinità che certamente non chiede più roghi e sacrifici umani, ma che ha aumentato ancora di più (sebbene in forma laicizzata ed apparentemente umanistica) l’idea dell’intrascendibilità del mondo. Oggi gli intellettuali sono portatori di questa intrascendibilità e immodificabilità del mondo, e lo fanno proprio perché hanno metabolizzato la critica alle “grandi narrazioni” di origine weberiana, liotardiana e post-sessantottina.
In una recente opera collettiva (L’idea di comunismo, 2011, DeriveApprodi), intellettuali che beneficiano di una notevole visibilità mediatica, tra cui Negri, Hardt, Badiou e Zizek, auspicano una rivitalizzazione dell’ideale comunista rivoluzionario, inteso soprattutto come lotta contro lo Stato e contro la proprietà privata (e quella pubblica).
A questa “fuga in avanti” massimalista lei contrappone “la deglobalizzazione, la sovranità nazionale e il riorientamento geopolitico”, ciò di cui secondo lei le classi dominanti avrebbero realmente paura. Può spiegarci meglio la sua posizione?
In uno scritto che è stato messo in rete (cfr. Comunismo fra Idea e Storia), ma che desidererei fosse stampato per renderlo più “stabile”, ho fatto un’analisi della raccolta di saggi di Negri, Hardt, Badiou e Zizek, oltre a commentare Gianfranco La Grassa, che considero un pensatore interessante. Io credo che questa domanda sia semplicemente un’appendice alla domanda precedente. Essendo gli intellettuali un gruppo dominato della classe dominante, quest’ultima possiede sistemi di filtraggio, in modo che arrivino all’opinione pubblica, e soprattutto alla cultura universitaria, idee non pericolose. Oggi le idee veramente incompatibili con la riproduzione capitalistica sono tutte connesse con il recupero della sovranità nazionale (economica, politica, militare), dunque deglobalizzazione, sovranità nazionale e riorientamento geopolitico. Siccome queste tre idee sono totalmente incompatibili con lo spazio pubblico manipolato della riproduzione capitalistica, è assolutamente fisiologico che esse vengano ostacolate in tutti i modi. Dal momento che ciò non può avvenire nella forma artigianale del Medioevo, con roghi, squartamenti e tenaglie roventi, oggi l’emarginazione avviene generalmente in modo soft, con la reclusione in gruppi catacombali con accesso limitato ad Internet, dove esse vengono perdute nel gigantesco rumore di fondo della rete. Quello che importa però, è che queste tre idee (deglobalizzazione, sovranità nazionale, riorientamento geopolitico) vengono completamente negate. Al posto della deglobalizzazione troviamo l’innocuo altermondialismo, al posto della sovranità nazionale l’innocuo multiculturalismo dei diritti umani, al posto del riorientamento geopolitico la condanna dei crudeli e feroci dittatori barbuti o baffuti. Per questo il sistema deve disporre di un meccanismo soft di filtraggio, e naturalmente personaggi come Negri, Hardt, Badiou e Zizek ne sono un esempio. Se lo facciano in buona fede o in mala fede lo sa solo Dio, ed è sempre molto complicato capire se qualcuno sta mentendo sapendo di mentire o se lo faccia per stupidità oppure tradimento. Io però constato che questo marxismo universitario è completamente innocuo. Per esempio, nel caso di Negri sostiene l’anarchismo, che è quanto di più innocuo ci sia, perché è totalmente inapplicabile. Come si vende la merda d’artista, è normale che si venda anche la “lotta contro lo Stato” che lei cita. Io credo che questo sistema di filtraggio funzioni molto bene, e che il ceto universitario sia corrivo, anche se non so se lo sia coscientemente oppure se lo faccia per stupidità (evidentemente le due cose sono mescolate). Il ceto universitario pratica da cinquant’anni la decostruzione, l’uso “di sinistra” di Nietzsche, il fatalismo destinalistico weberiano e heideggeriano, le teorie di Foucault sulla microfisica del potere e sulla biopolitica, perciò credo che abbia introiettato, con la tipica stupidità dei matti (intendo proprio i matti da manicomio) e credendo di essere libero, quello che è in realtà un mandato sociale. Particolarmente scandaloso è poi quando il ceto universitario dice che non c’è il problema del Pubblico, ma del Comune. Ora, tutti sanno che se in futuro si arriverà al Comune, sarà attraverso il Pubblico e una sua radicale democratizzazione, perché è impossibile arrivare al Comune con un colpo di pistola. Ammesso che vi si possa arrivare e che non sia solo, come direbbe Kant, un concetto-limite della ragion pura pratica, ciò presuppone la difesa del Pubblico. Oggi il sistema vuole smantellare il pubblico, cioè il welfare state, e quali migliori alleati dei buffoni che dicono che il problema non è il Pubblico ma il Comune? Sembra quasi che si mettano d’accordo. Si mettono d’accordo? In parte sì, perché l’intellettuale, tra i suoi tanti difetti, è anche vanitoso e sa individuare, con l’istinto del “cane da tartufo”, quali cose dire per arrivare ai mass media. Quindi in parte è soggettivamente così, e in parte è dovuto ad un meccanismo selettivo di filtraggio degli intellettuali i quali, non dimentichiamolo mai, sono un gruppo dominato della classe dominante.
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