Progetto Fauno – Rubrica Scarabocchi
Dopo la frustrante esperienza col muso di cervo, guardo il foglio bianco e la penna che non scorre. Nel tempo di una sera allo sconforto ci si aggiunge anche la rabbia. No. Cambiamo strategia.
Mi approprio del pensiero di Claudine e per un po’ terrò segreti gli schizzi del progetto Fauno. Il discrimine lo fa – scusate la volubilità- non tanto la qualità del disegno, ma il mio umore. Il motivo è semplice: non sono in grado di giudicare la qualità effettiva del disegno se non in rapporto al mio modo di disegnare, e il mio modo di disegnare sta a metà tra un’ auto terapia e una meditazione, cose che non stanno avvenendo. Quando scarabocchio un foglio mi estraneo completamente da me stessa; questo esclude non solo il contesto in cui mi trovo e il mio stato d’animo, ma anche le mie intenzioni di raffigurare qualcuno o qualcosa. Parto per un viaggio mentale che comprende solo il foglio che ho davanti, le sue impurità, le pieghe e il modo in cui la penna le percorre. Quindi, se dico che un disegno mi è “riuscito” è perché, alla fine del viaggio, quando stacco la penna dal foglio, io riesco a leggere in quelle linee le idee, le figure, le intenzioni che avevano percorso la mia mente negli ultimi tempi, così come gli umori e le passioni che vi covavano sotto e che aspettavano di essere sfogate.
Questo processo ora non avviene, anzi, mi approccio al foglio con troppa presenza di me e del mio “voglio fare”, terribilmente irritante. Voglio pensare di più, immaginare di più, fantasticare di più, portarmi dentro qusto magma per un po’ nella pancia, perchè fermenti bene. Nella pancia, non nel cervello. Solo alla fine vedremo se sborda e arriva nelle mani.
Nel far questo, ho ipotizzato l’approfondimento delle prospettive teoriche secondo nodi concettuali, quattro blocchi magmatici mobili nella quale organizzare, selezionare e indagare quei riferimenti spuntati nel brainstorming.
1- la preda: [Atteone e lo sparagmos]
2- il predatore [homo homini lupus o l’uomo lupo a se stesso?]
3- la caccia/ il branco [l’inferno sulla terra, la massa, la società divoratrice…]
4- il divino [incarnazione della vita]
Per ora sono 4, vedremo in itinere se cresceranno.
Intanto vi propongo di famigliarizzare con la figura del povero Atteone, cacciatore trasformato in preda per aver guardato le nudità della dea Diana. Il mito è narrato meravigliosamente nel Libro Terzo de Le Metamosforsi di Ovidio, inserito tra le storie riguardanti Cadmo e la sua progenie.
Fra tanta felicità il primo dolore ti fu causato,
Cadmo, da tuo nipote, da quelle strane corna cresciutegli
in fronte, e da voi, cani, che vi abbeveraste al sangue del padrone.
Ma, a ben guardare, in lui vedrai torto di malasorte,
non malvagità: e quale malvagità è in un errore?
C’era un monte intriso del sangue di diversa selvaggina,
e già il mezzogiorno aveva contratto le ombre delle cose,
perché il sole si trovava a ugual distanza dai suoi confini,
quando il giovane Ianteo si rivolse con voce pacata
ai compagni di caccia che si aggiravano per forre isolate:
“Amici, armi e reti sono madide del sangue di animali;
giornata fortunata questa: può bastare. Quando, trascinata
dal suo cocchio d’oro, domani l’Aurora riporterà la luce,
ci rimetteremo all’opera. Ora Febo è a metà
del suo cammino e spacca la terra con la sua vampa.
Sospendete l’opera in corso e togliete l’intrico delle reti”.
Gli uomini eseguono e interrompono il loro lavoro.
C’era una valle coperta di pini e sottili cipressi,
chiamata Gargafia, sacra a Diana dalle vesti succinte,
nei cui recessi in fondo al bosco si trovava un antro
incontaminato dall’uomo: la natura col suo estro
l’aveva reso simile a un’opera d’arte: con pomice viva
e tufo leggero aveva innalzato un arco naturale.
Sulla destra in mille riflessi frusciava una fonte d’acque limpide,
col taglio della sua fessura incorniciato di margini erbosi.
Qui veniva, quand’era stanca di cacciare, la dea delle selve
per rinfrescare il suo corpo di vergine in acque sorgive.
E qui giunta, alla ninfa che le fa da scudiera consegna
il giavellotto, la faretra e il suo arco allentato;
si sfila la veste che un’altra prende sulle braccia;
due le tolgono i sandali dai piedi, e la figlia di Ismeno,
Cròcale, più esperta di queste, in un nodo le raccoglie i capelli
sparsi sul collo, che lei al solito portava sciolti.
Nèfele, Iale, Ranis, Psecas e Fiale attingono acqua
con anfore capaci e gliela versano sul corpo.
Mentre Diana si bagnava così alla sua solita fonte,
ecco che il nipote di Cadmo, prima di riprendere la caccia,
vagando a caso per quel bosco che non conosceva,
arrivò in quel sacro recesso: qui lo condusse il destino.
Appena entrò nella grotta irrorata dalla fonte,
le ninfe, nude com’erano, alla vista di un uomo
si percossero il petto e riempirono il bosco intero
di urla incontrollate, poi corsero a disporsi intorno a Diana
per coprirla con i loro corpi; ma, per la sua statura,
la dea tutte le sovrastava di una testa.
Quel colore purpureo che assumono le nubi se contro
si riflette il sole, o che possiede l’aurora,
quello apparve sul volto di Diana sorpresa senza veste.
Benché attorniata dalla ressa delle sue compagne,
pure si pose di traverso e volse il volto indietro.
Non avendo a presa di mano le frecce, come avrebbe voluto,
attinse l’acqua che aveva ai piedi e la gettò in faccia all’uomo,
inzuppandogli i capelli con quel diluvio di vendetta,
e a predire l’imminente sventura, aggiunse:
“Ed ora racconta d’avermi vista senza veli,
se sei in grado di farlo!”. Senza altre minacce,
sul suo capo gocciolante impose corna di cervo adulto,
gli allungò il collo, gli appuntì in cima le orecchie,
gli mutò le mani in piedi, le braccia in lunghe zampe,
e gli ammantò il corpo di un vello a chiazze.
Gli infuse in più la timidezza. Via fuggì l’eroe, figlio di Autònoe,
e mentre fuggiva si stupì d’essere così veloce. Quando
poi vide in uno specchio d’acqua il proprio aspetto con le corna,
“Povero me!” stava per dire: nemmeno un fil di voce gli uscì.
Emise un gemito: quella fu la sua voce, e lacrime gli scorsero
su quel volto non suo; solo lo spirito di un tempo gli rimase.
Che fare? Tornare a casa, nella reggia, o nascondersi
nei boschi? Quello glielo impediva la vergogna, questo il timore.
Mentre si arrovellava, lo avvistarono i cani. Melampo e Icnòbate,
quel gran segugio, per primi con un latrato diedero il segnale
(Icnòbate di ceppo cretese, Melampo di razza spartana).
Poi di corsa, più veloci di un turbine, si avventarono gli altri:
Pànfago, Dorceo e Orìbaso, tutti dell’Arcadia,
e il forte Nebròfono, il truce Terone con Lèlape,
Ptèrela e Agre, eccellenti l’una in velocità, l’altra nel fiuto,
e il battagliero Ileo ferito di recente da un cinghiale,
Nape concepita da un lupo, Pemènide già guardiana
di mandrie e Arpia accompagnata dai due figli,
Ladone di Sicione coi suoi fianchi scarni,
e Dròmade, Cànace, Sticte, Tigri ed Alce,
Lèucon e Asbolo, col pelo niveo il primo, di pece il secondo,
il fortissimo Làcon e Aello insuperabile nella corsa,
e Too, la veloce Licisca col fratello Ciprio,
Arpalo con una stella bianca in mezzo alla fronte nera,
e Melàneo e Lacne col suo mantello irsuto,
Labro e Agrìodo nati da padre cretese,
ma da madre di Laconia, e Ilàctore con la sua voce acuta,
e altri, troppi da elencare. Tutta questa muta, avida di preda,
per rupi, anfratti e rocce inaccessibili, dove la via
è impervia o dove via non esiste, l’insegue.
Lui fugge, per quei luoghi dove un tempo li aveva seguiti,
ahimè lui fugge i suoi stessi fedeli. Vorrebbe gridare:
“Sono Attèone! Non riconoscete più il vostro padrone?”.
Vorrebbe, ma gli manca la parola. E il cielo è pieno di latrati.
Le prime ferite gliele infligge sul dorso Melanchete,
poi Teròdamas; Oresìtrofo gli si avvinghia a una spalla:
erano partiti in ritardo, ma tagliando per i monti
avevano abbreviata la via. Mentre essi trattengono il padrone,
il resto della muta si raduna e in corpo gli conficca i denti.
Ormai non c’è più luogo per altre ferite. E geme,
ma con voce che, se non è umana, neanche un cervo
emetterebbe, e riempie quei gioghi di lugubri lamenti:
in ginocchio, supplicando come chi prega,
volge intorno muti sguardi quasi fossero braccia.
I suoi compagni intanto con gli sproni di sempre aizzano ignari
il branco infuriato e cercano Attèone con gli occhi,
poi, come se fosse lontano, ‘Attèone’ gridano a gara
(al suo nome lui gira il capo) e si lamentano che non ci sia,
che per pigrizia si perda lo spettacolo offerto dalla preda.
Certo lui vorrebbe non esserci, ma c’è; vorrebbe assistere
senza dover subire la ferocia dei suoi cani. Ma quei cani
da ogni parte l’attorniano e, affondando le zanne nel corpo,
sbranano il loro padrone sotto il simulacro di un cervo:
e si dice che l’ira della bellicosa Diana non fu sazia,
finché per le innumerevoli ferite non finì la sua vita.
I pareri sono incerti: per alcuni troppo crudele
fu la dea; altri la lodano, considerandola degna
della sua verginità austera; ognuno con buone ragioni.
Fonti: Atteone trasformato in cervo – particolare de La favola di Diana e Atteone, affresco di Francesco Mazzola detto Il Parmigianino, 1524, Castello di Fontanellato, Parma.
Ovidio, Metamosforsi, libro terzo. Testo leggibile interamente sul sito http://www.miti3000.it/mito/biblio/ovidio/metamorfosi