Che la giornata non sarebbe stata assolutamente cosa il commissario Salvo Montalbano se ne fece subito persuaso non appena entrò nel suo ufficio.
- Catare’! Catarella!
- All’ordini, dottori!
- Veni subito ‘nni mia!
Non ebbi il tempo di posari il ricevitori che Catarella si materializzò davanti a lui, mpalato sull’attenti.
- Catarella, mi vuoi dire che minchia è sta camurria? Montalbano indicò una montagnola di carta che quasi nascondeva il ripiano della scrivania?
Catarella s’imparpagliò.
- …pizzini sono, dottori.
- Tutti pizzini? Catarella, stai babbiannu?
- Nzamà, dottori, e pirchì? Questi pizzini a vossia sono, il nome vostro sopra c’è.
Montalbano restò tanticchia nsallanutu, poi principiò a capire.
Mandò via Catarella con un gesto e si sedette dietro la scrivania. Fece un mucchio con le mani di tutti i biglietti, mentre lo attraversava il pinziero di darci fòco. Chi l’aveva detto? Chi lo sapeva? Ma la curiosità lo assugliava e così raprì il primo, scritto con una curiosa grafia antiquata.
Eccellenza illustrissima e riveritissima!
Il sottoscritto GENUARDI Filippo, fu Giacomo Paolo e fu Posacane Eldemira, nato in Vigata (provincia di Montelusa)…
Minchia, pensò Montalbano, costui patisce il complesso dell’anagrafe peggio di Fazio. Scivolò con lo sguardo alla fine del pizzino, dove “gratissimo per la benigna attenzione” il Genuardi esplicitava finalmente il suo desiderio di millanta e millanta anni di altrettanta felicità per l’Eccellenza illustrissima nonché destinataria del pizzino.
Lasciando cadere il povero Genuardi, prese a casaccio un bigliettino rosa pallido. Aggiarniò leggendo i due versi vergati da una mano che ben canosceva:
Quanto più cerca ritrovar quiete,
tanto ritrova più travaglio e pena…
Immobili, accomenzò a sintiri crisciri dintra di lui, ‘mproviso e violento, un gran senso di vrigogna al pinziero di quella volta che si era ‘nnamorato d’una picciotta che potiva essiri so’ figlia! Furioso più d’Orlando strappò il pizzino di Angelica in mille pezzettini.
Meccanicamente, senza addunarsene, allungò la mano su un foglietto di quaderno piegato in quattro:
Dottori, trovasi a casa un cabarè di ficazzani maturi e tanticchia di caponatina. La tavola è già conzata. Auguri molti a vossia da
Cirrinciò Adilina
Scoppiò a ridere, rinfrancato: per fortuna c’erano fimmine come a lei, che sapevano da che parte prenderlo. E già pensava al profumo dei fichi maturi, tuffandosi testa avanti nei pizzini, leggendo qui una frase allusiva di Elena, la gattoparda dagli occhi di cielo, là una professione di amicizia di Mimì Augello, Ingrid lo invitava a concludere i vent’anni di carriera con una cenetta, mentre il dottor Pasquano esprimeva amabilmente l’indefessa speranza che avanzando l’età di entrambi avrebbe smesso di scassargli i cabasisi. Tutti, tutti gli avevano scritto, tranne Livia che, dopo l’ultima azzuffatina, era partita in barca con i suoi amici.
Poi taliò a una scrittura che non gli sembrava di accanoscere. Incuriosito, raprì:
Caro Salvo, converrai con me che vent’anni nella vita di un uomo possono essere pochi e possono essere tanti. Persino troppi.
Speriamo per entrambi che nella vita di un personaggio di romanzi siano da considerarsi un bastevole compromesso.
Andrea C.