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Auguri e figli maschi

Da Femminileplurale

Auguri e figli maschiDomenica è la festa della mamma. I temi che si potrebbero affrontare in questa occasione sarebbero molti e molto seri: dal significato della maternità per le donne alle condizioni in cui oggi, tra precariato (o la disoccupazione) e una quasi totale assenza di servizi sociali di supporto, le donne sono costrette ad affrontarla – o, spesso, proprio per questi motivi non possono permettersela.

Un pensiero, però, mi va di dedicarlo a tutte coloro che aspettano un figlio e, in particolare, un figlio maschio. Sempre più mi convinco del fatto che tutte le questioni che riguardano il ruolo della donna nella nostra società e, soprattutto, l’affermazione della necessità di un cambiamento nel modo di intendere i rapporti uomo-donna, nel modo di pensare la donna e nel conseguente bisogno di uscire da schemi ormai vecchi ma ancora molto influenti nella mentalità di tutti noi, tutte queste questioni non possono trovare una soluzione se non si passa per un fondamentale ripensamento della mentalità maschile a proposito. La società va cambiata, ma affinché questo avvenga è necessario che gli uomini stessi attuino un cambiamento nel loro modo di pensare e di agire, nel loro modo di rapportarsi alle donne. E questo passaggio, a mio avviso, passa in modo essenziale per quello che la prima donna che incontrano, ossia la loro madre, trasmette loro.

Questo è un appello alle madri di figli maschi che Concita De Gregorio lancia nel suo bel libro Malamore. Esercizi di resistenza al dolore, dedicato a “le donne, i loro uomini e la violenza”, e lo giriamo alle mamme, presenti e future (poi ce ne vorrà uno per madri di figlie femmine: se qualcuno lo vorrà scrivere, Femminile Plurale aspetta). Certamente non esaurisce il problema, ma dà una buona occasione per riflettere su un tema importante.

“Siccome prima di ogni adulto c’è un bambino e dietro un bambino c’è, se ha fortuna, una famiglia, ecco il posto da dove si comincia. Il 70 per cento degli uomini trentenni, in Italia, vive coi genitori. Sette su dieci. Hanno a casa, quasi sempre, la madre. Sarebbe bello immaginare che si dividano i compiti e le responsabilità ma temo che non sia così.

L’accorato appello, a sostegno delle giovani donne che prima o poi accoglieranno nelle loro vite quei trentenni, è rivolto alle madri.

Si potrebbe cominciare dal non essere particolarmente fiere di aver partorito (ormai molto tempo fa, tra l’altro) un figlio maschio. Non comunicare né con le parole né coi gesti che per la madre si tratta di un privilegio: addirittura non pensarlo. Considerare il fatto che si rifacciano il letto e raccolgano da terra i calzini non un gesto di generosità ma una semplice decenza. Che tirino l’acqua del wc dopo essere stati in bagno un obbligo; mostrare raccapriccio, fin da quando sono bambini per l’abitudine contraria a meno di non vivere in luoghi desertici e non raggiunti da acquedotto. Non lasciarli dormire fino a mezzogiorno o alle due perché hanno fatto tardi ieri sera, in fondo sono ragazzi. Non essere fieri con gli amici della quantità delle loro conquiste sentimentali e dell’eventuale turnover, non considerare le concomitanze di fidanzamenti multipli naturale segno di virilità, semmai uno sbandamento, una fase passeggera. Non chiedergli cosa vogliono per pranzo, eventualmente chiedergli di preparare il pranzo. Non denigrare la fidanzata di turno perché inaffidabile, poco gentile, non premurosa. Per nessun’altra ragione, comunque, meno che mai prendere informazioni sulle sue doti muliebri e mostrarsi interdette se la ragazza ha intenzione di stare via sei mesi per uno stage a Boston. Se va a stare da solo, ma tanto capita di rado, oltretutto gli affitti sono carissimi e il lavoro manca, se comunque va a vivere da solo non offrirsi di lavare e stirare la biancheria portata a sacchi due volte a settimana, meno che mai andare a raccoglierla a domicilio. Non svegliarlo la mattina al cellulare perché non sente la sveglia, ha il sonno pesante. Non andargli a portare le chiavi di casa che ha dimenticato se lo fa di norma: una volta, due forse, poi basta. Non andarlo a prendere perché non gli va di venire in autobus, a meno che non se ne senta l’intima necessità dopo un’assenza di mesi. Non nascondere al marito le malefatte del figlio, non fare la parte di quella che tutto comprende e risolve, quella che “non lo diciamo a papà”, ma nemmeno lasciare che il marito – il compagno, o il fidanzato, o chiunque sia – sia quello che gioca alla playstation e vede la partita in tv col figlio maschio che così si divertono e sono proprio simpatici quei due mentre la madre, quella rompiballe, sta di là in cucina sempre a lamentarsi e la sorella rifà i letti e scrive un diario perché non può uscire la sera. Ecco, ripartirei da qui” (C. De Gregorio, Malamore, Mondadori 2008, pp. 61-63).


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