Senza Raymond Chandler, oggi, la letteratura avrebbe un grosso buco. Una lacuna indiscutibile proprio nel centro della parola “giallo”. Lui che questa parola l’ha rivoltata come una tasca stracolma di ciarpame, epurandola e liberandola dai fronzoli inutili e cucendovi attorno, a foderarla, un impenetrabile strato di colore multiforme. Tale e tanta da sfociare nella sovrabbondanza noir e pulp. Con il pulp, Chandler ha iniziato. Nel pulp Chandler si è specchiato. Ben prima di approdare all’universo Marlowe.
Per leggere Chandler è necessario conoscere Chandler. Non necessariamente averne contezza bibliografica. Piuttosto, trattarlo come un amico, un conoscente, un buon vicino. Sapere del suo odio per lo schematismo e per le convenzioni, accertarsi dei vezzi e dei vizi, scrutare senza remore nei suoi amori travagliati e nell’ammirazione passionale per i gatti.
Ecco perché il lavoro di raccolta di Dorothy Gardiner e Kathrine Sorley Walker acquisisce un valore postumo immane. Le frasi estrapolate dalle lettere private dello scrittore, parole espulse a calci in culo dall’angoscia, buttafuori nerboruta che staziona alla soglia dell’anima, come fossero ospiti indesiderati e quasi sgraditi, sono indicatori inequivocabili della complessità di Chandler. Satirico, spietato, caustico, mortificante, lucido, freddo, calcolatore, innamorato, disperato: nel mondo del quotidiano Chandler è tutto questo. Un mondo amalgamato con feste, successo e convenzione, ma anche composto con malattie miste al dolore e condito di un suicidio non riuscito di cui lui stesso si burla definendolo “un patetico spettacolino da due soldi”.
Tradurre l’intimità è difficile, ma possibile; lo dimostra, con “Parola di Chandler”, edito da Coconino Press (parente della Fandango) Sandro Veronesi; testo riportato alla luce dopo oltre 30 anni di assenza dai cataloghi italiani. Nasce così un mattoncino di verità umana, un esempio di realtà nuda e cruda. 350 pagine di riflessioni e saggi, inediti e lettere. 350 pagine che, come in un orologio appeso al muro dell’esistenza, ticchettano sentimenti, battono lacrime, segnano esperienze. Pagine che ci dicono che non esiste un solo Chandler e che, nel contempo, ogni uomo è uomo come tanti, come tutti. E’ uomo con la sua umana debolezza e con la sua forza rude ed a volte solo inscenata per la collettività.
Nella vita di Chandler e nella scrittura epistolare di Chandler c’è uno spartitraffico: un evento che lo segna, lo distrugge, lo crepa come cemento ancora troppo fresco per apporvi un chiodo. E’ la morte della moglie Cissy Pascal. da quel momento, chicchessia il destinatario del suo scrivere, Chandler lo inchioda ad una dolcezza nostalgica e quasi ossessiva, per anni segretamente covata. Arde il fuoco dell’urlo di dolore, s’infiamma nella morte la vita. E, come ogni fuoco, anche quello di Chandler è sottoposto ai venti. Il primo, quello della depressione che, come detto, appena due mesi dopo il lutto, lo indurrà a puntarsi una pistola contro. Eppure Raymond è un pupillo della beffa. Di lui si serve per svilire e strombazzare cinismo. A lui riserva il giochino stridente del fallimento. Commenterà un suo amico: “il più fallimentare tentativo di suicidio di tutti i tempi”.
Ma la scrittura gli resta attaccata indosso come un vestito inzuppato di colla vinilica e sudore acido. Chandler la intende come sfogo e come mestiere. Ma, soprattutto, come elemento di contraddistinzione; come rottura della banalità scribacchina, come strumento di maturazione, di perfezionamento, come una consequenzialità logica, raziocinante e rotolante, nulla abbandonato al caso. L’opposto della sua esistenza, insomma. Di quella sconvolgente e preziosa vita indolenzita ma senza la quale, oggi, saremmo inconsapevolmente più poveri.
Raymond Chandler-Sandro Veronesi-Igort, “Parola di Chandler”, Coconino 2011
Giudizio: 3 / 5 – Antologia