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Autori Lietocolle: Michelangelo Camelliti

Da Narcyso

Michelangelo Camelliti, I COLORI DEI PRECIPIZI, Lietocolle 2011

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Quali sono questi colori evocati nel titolo?
Sono, in ordine di apparizione, il grigio di Picasso, il bleu di Derain, il rosso di Matisse.
Tre macro sinestesie per attraversare gli stadi del dolore, della sua narrazione attraverso la cronaca diretta dell’accadere, del fatto evocato, del fatto trasformato.
Non è quindi, il precipizio nel quale rischiamo di cadere dopo la scomparsa della persona cara, ma i precipizi, e cioè le fasi della trasformazione, delle successive modificazioni del clima cromatico. La metamorfosi rimanda alle stagioni della vita, alle voci che ci circondano, al loro intrufolarsi sfacciato nelle stanze monolitiche che invece tendiamo a costruirci per proteggerci.
Ma leggiamo alcuni passaggi:

A mezzo tronco, incrociata a un ramo,
una ghirlandetta quasi secca.
Sulla corteccia del tronco erano incisi due nomi.
p. 15

Ecco il bassorilievo, il monumento che i vivi e il tempo cominciano a dimenticare; solo che ogni cosa non è totalmente cancellata ma ridotta alla sua essenza, e anche ” l’angelo custode”, prima o poi, sarà distratto da una nuova primavera. Tuttavia, ho anche pensato a un altro clima, quello della follia dei nomi incisi sulle pietre, sui tronchi dell’albero, ad evocare un amore indivisibile, un violento sdradicamento.
Così, mentre il simulacro è il luogo riassuntivo e rassicurante di ogni fine, finis terrae, l’ospedale rappresenta la terra di passaggio, fatta apposta per pensare: lo spazio dei passi da un punto all’altro di una retta finché qualcosa non si rompa e proclami, finalmente, l’eterno turgore della vita:

mi sono spremuto gli occhi
cammino un piede davanti all’altro
appoggiato al muro o tirato su per la mano

sono lenti questi movimenti
proprio qui, nel corridoio
p.16

La morte è un evento mostruoso solo perché sconvolge la routine, il corretto procedere dei passi verso gli amati, gli affetti. Noi possiamo pensare alla morte come un evento naturale solo quando l’abbiamo riconfinata, in attesa, nel perimetro del suo altare.
Questo altare, certo, non ha né forma né colore, non ha Dio e non ha re. Possiede, però, tutte le maschere della preghiera e della rappresentazione simbolica. In molti passaggi di questi testi, la preghiera indossa la descrizione del referto, della precisa visualizzazione: “L’esplorazione elettrocorticografica ha segnalato/una debole focalità”, e questo avviene quando le parole non riescano ad assolvere al compito di una corrispondenza totale con la cosa. Cercano altrove, si attaccano al visibile.
Non per ultimo, il libro è diario dei fatti minimi; della stanza, della misurazione di distanze e prospettive: letto-finestra, corpo a corpo in veglia, o in dormiveglia, auscultazione dei minimi respiri, delle aritmie cardiache; spazio e distanza, che poi diventano tempo infinito, o tempo sospeso, quello momentaneamente sottratto dall’irruzione.
Le conseguenze dell’aver conosciuto “la cosa” da tanto vicino, non è l’avvento dello stato di grazia di una fede rassicurante, ma il sapere definitivamente “il mostro di ognuno/sbirciato nei corpi che prima erano altari”, nell’inaugurazione di uno stato perenne di allarme:

ogni tragica bestia è umana allora
per il grido d’amore che noi siamo
e la difesa di questo piccolo regno sa esserci
assassina

ma di coccinella di tanto in tanto
io poso e riposo
eppure sono i ruggiti che mi mantengono fiore.
p.29

Ognuno è pietra refrattaria, non abbandonato malinconicamente al declino e alla distruzione ma “messa sul focolare/nel nome del padre”, p.31. Chi scrive deve sapere che “a forza di scrivere/le dita si fanno radici/terra da abitare”, p. 31. Chi scrive deve decidere di abitare la traccia del progetto: “trovare un punto e un senso/di queste cose (…)/trovare un punto e un fine/di queste cose/che ospitano acqua dolore amore”, p. 33, finchè “le parole sono diventate finalmente mute”, p.36.
Questa saggezza, insomma, rappresenta il disincanto del senso della vita e della scrittura:

Tu che conosci il mio male, te lo devo riconoscere,
sai che l’ho ricevuto come un dono, non come un castigo,
davvero, Signore, ti chiedo da dove viene il male?
p. 31.

Michelangelo Camelliti, però, sa perfettamente che quasi mai questo disseccamento, questa saggezza, si colloca nella fase finale dell’esperienza. Tutto ricomincia: i passi sono concentrici, la vita e la morte espongono i loro vessilli, reclamano i loro debiti. Così, nel momento del rimpianto e della speranza, leggiamo ancora: “sulle gote arrossate/il velo di morsicatura alla lingua/crisi convulsiva prolungata/che contorce sulla ciglia sinistra”, p.41.
La preghiera si fa ancora supplica: “non fammi vivo/me sul tuo tutto, minuto sulla i/come un puntino, un niente/una scheggia esultante/alla tua ascissa”, p.42.
Gli oggetti diventano feticci: “Risalta il ricamo della tua maglia/luce sul volto d’adolescente/questa sera ho bevuto/e fumato, da stordire i disegni felici/sulla tua maglia”, p. 43.
Il ricordo, arma a doppio taglio, ci dice che qualcuno, qualcosa, ci è appartenuto e che noi esistiamo solo perché apparteniamo, siamo appartenuti.

Sebastiano Aglieco

***

In crepa di cuore
a gettare radici e rampicare di fretta
come un male necessario
maggio che torna e ha scritto
mai d’amore

*

La primavera indossa il vespero più bello
mi crescono sulle unghie lune amare
anche un minuto solo di tregua
la mia miseria è farmi uccello
che canta all’alba
la sua vita in pugno di piume

*

Quante volte ti ho visto tremare
riempire il bicchiere col fiato
il rito delle mani che cercano cose
di creduta padronanza

sto con il mio angioma cavernoso
come in un piccolo sudario
lasciti segreti di una vita, vertigini
passano e sembrano di vento
i passeri nel grigio dell’inverno.

*

Le pareti erano vagamente più chiare
del pavimento
eri entrato in uno stato di calma totale
come se tutto fosse normale

la “cosa” smise la sua strisciante avanzata
la tua gracilità di angelo a vederla
erano le porte del cielo incuranti della terra
era notte e la luce data da due lune

nelle mie braccia in pochi minuti
sono caduti i tuoi anni, le tue paure
nelle mie mani la pietra fredda del mio altare
al tuo amore, figlio mio

tenevo gli occhi chiusi perchè mi sentivo perduto
stringevo le tue braccia e non avevo respiro
come se tutto fosse normale
sfiorarti lentamente sentirti parlare, non soffrire…

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