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"Sconfessiamo, senza presunzione né trionfalismo, tutti quei miei amici, colleghi, a volte compagni di lavoro anche di una vita, dell’ambito cinematografico, per i quali la qualità in ambito di fiction non ha diritto di cittadinanza – spiega il regista che in primavera tornerà nelle sale cinematografiche con Un ragazzo d’oro – Non è vero che il Paese sia così� rassegnato e che chieda solo prodotti scontati fatti per compiacere le masse. Il fatto sia piaciuta la mia proposta narrativa, che non si sposta di una virgola dal mio cinema, è molto confortante".
E, aggiunge Avati "dovrebbe essere incoraggiante nei riguardi dei committenti, per investire e dare spazio sempre più a produzioni originali e di qualità, e anche nei riguardi di quei colleghi che guardano con schizzinosità alla fiction e la considerano sottoprodotto. In paesi come l’America i migliori registi dirigono le serie, dovremmo riconsiderare e ridare prestigio e ambizione a questo format". Rispetto al cinema "dove i film d’autore perdono sempre più il loro pubblico, la televisione ha il potenziale per raggiungere il Paese reale. Idee realizzate con qualità e buonsenso possono aiutare non solo a riflettere su ciò che vediamo, ma ad agire per migliorarlo".
Con Un matrimonio "è come se avessi proiettato il mio film in una sala dove erano sedute 4 milioni e mezzo di persone… è emozionante". Per lui lavorare a questo progetto, in cui ripercorre 50 anni di Italia, riflessi dalla storia della sua famiglia "è stato liberatorio. Un narratore in un film deve sempre lasciar fuori qualcosa, mentre qui, davanti a così tante pagine bianche ho potuto occuparmi di tutti, raccontando 259 personaggi".