La mia nonna, 85 anni tra poco, è sempre stata una degustatrice nata. Sarà che ha patito la fame da giovane, sarà che la sua vita è sempre stata in salita, sarà quel che sarà, ma io l’ho sempre vista mangiare volentieri, con l’atteggiamento di chi sa che quello che ha nel piatto è un dono della fortuna. Che io ricordi, è sempre stata in carne. Molto in carne, si intende. Ma non gliele fregava niente, perché per lei non c’era cosa più buona della polenta con la “tocà da boia” (un piatto tipico popolare delle mie parti a base di salsiccia e farina di mais) e cosa più bella del sedersi a mangiarla insieme alla sua famiglia.
Ma gli anni sono passati, io sono cresciuta e lei è diventata inevitabilmente più anziana. Poco tempo fa è stata ricoverata all’ospedale civile di Belluno per alcuni accertamenti (niente di grave, è tornata a casa) perché continuava a perdere peso senza un apparente motivo. Ma il motivo c’era: non mangiava più. O meglio, lo faceva come un uccellino.
Anche in ospedale non mangiava e quando sono andata a trovarla, sono state queste le parole che mi sono sentita dire: “Sastu balina, l’e burt avé fam e no avé nia da parà do. Ma le burt anca avé tante robe bòne da magnà e no avé nisuna fam!” (trad. il titolo del post).
Senza dubbio è stata una frase che mi ha fatta riflettere, non tanto sul valore del cibo quanto sulla presunzione di capire i dolori degli altri: spesso ci occupiamo della fame nel mondo, della crisi alimentare e tutto il resto, ma mai ci sarebbe venuto in mente che ci sono persone – ormai anziane – che non riescono più a gioire vedendo un piatto di pasta.
Ieri, mesi dopo questo episodio, sono andata con entrambi i miei nonni in Comelico, da una sorella del nonno, per l’ultima volta. Sì, così la nonna mi ha chiesto di accompagnarli: voglio vederli un’ultima volta. Questa lacerante consapevolezza di avere poco tempo mi ha spiazzata, come se per me fosse strano che una persona sappia di dover morire e lo accetti con la stessa semplicità con cui si accetta di essere nati. E lo era, per me, strano. Perché ho vent’anni, ed è normale che davanti a me io veda solamente vita.
La sorella di mio nonno, Maria, ci ha accolti con la gioia di chi non vede i propri cari da anni e ci ha preparato un pranzo domenicale che Joe Bastianich levati proprio. Ovviamente, il servizio di piatti era quello della Svizzera, costato un occhio della testa più di mezzo secolo fa. Ma la gioia più grande è stata vedere la mia nonna ritrovare l’appetito, vederla mangiare un panino con lo speck alle dieci di mattina; a mezzogiorno la pasta al ragù, l’arrosto, l’insalata e perfino il gelato! Felice, sorridente. Certo, sempre anziana e debole, ma felice. Durante il viaggio di rientro, ha perfino preteso di fare una sosta, perché lei aveva sete e voleva una birra.
Questa è stata la mia gioia, vederla mangiare e bere come una volta, con il gusto di chi ha patito la fame e sa cosa vuol dire. Perché io no, non so cosa voglia dire.
Ho visto di nuovo la luce nei suoi occhi, e le sono grata per averla riflessa nei miei.
Grazie nonna!