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avere scritto un libro

Creato il 09 settembre 2010 da Gaia

Ho deciso di pubblicare il mio romanzo da sola perché volevo avere il controllo totale della mia opera. Volevo che uscisse prima possibile, perché non sopportavo di dover aspettare un solo giorno in più, lasciando il libro nel limbo della scrivania di chissà chi; volevo che nessuno mi cambiasse nemmeno una virgola, se non per correggere un errore; volevo scegliere la copertina, la quarta di copertina, tutto. Volevo ritenerne i diritti, non mi sembrava giusto doverli cedere. Quel libro doveva essere mio in tutto e per tutto, perché l’avevo scritto io, in pochi mesi, in uno stato di estasi e dedizione assolute, perché volevo e perché dovevo, una combinazione di volontà e necessità e trasporto ossessivo che già di per sé mi sembrava avesse del miracoloso.

Fin qui, ho avuto quello che volevo. Ho scritto di testa mia, ho pagato di tasca mia, ho commissionato la copertina ad un amico (grazie Pola), e, a parte il fatto che la sfumatura è uscita un po’ più verdina del previsto, ho avuto in mano il libro esattamente come l’avevo pensato. Non volevo la trama in quarta di copertina, perché ho sempre odiato chi la svela, e non c’era la trama. Non volevo mettere note biografiche, e non le ho messe. Era totalmente il mio libro. Una soddisfazione enorme, un orgoglio, una vittoria. E non avrei dovuto affidarlo a quella grande macchina le cui intenzioni e meccanismi mi ispirano tanta diffidenza, che è la distribuzione -ci avrei pensato io.

Il problema è che non basta scrivere un romanzo, bisogna far sì che la gente lo legga, bisogna venderlo. Qui sono entrata in crisi. Cosa significa commercializzare un libro? Un romanzo è un messaggio, e come puoi vendere un messaggio? So che è una domanda assurda, i libri, i quadri, la musica, si comprano e si vendono e si commissionano e si pagano, c’è gente che di mestiere fa questo, gente che studia questo, solo perché io non lo capisco non posso negare il diritto stesso ad esistere del mercato culturale. Inoltre, scrivere è un lavoro, non un hobby, e per i lavori uno vuole essere pagato.

Così ho iniziato ad analizzare i miei stessi meccanismi di lettura ed acquisto: come compro i libri, io? Per passaparola, o perché sono dei classici (non mi fido delle nuove uscite o dei bestseller del momento o delle recensioni leccacule, mi sembra tutto manovrato). Ma il mio libro non è un classico, e il passaparola funziona come vuole lui -quindi?

E poi essere dall’altra parte è un’altra cosa. A meno che non si sia lettori ossessivi come me, o che si tratti di libri di culto, raramente per chi legge il libro significa tanto come per chi scrive.

Forse bisogna provare per capire, o forse io entro in crisi perché sono confusa o perché non sono capace o perché provo una diffidenza viscerale nei confronti di tutto ciò che è marketing, pubblicità, commercio, mi sembra solo manipolazione e non voglio entrarci… penso: cosa deve fare ancora il mio libro, oltre ad esistere? C’è, e tanto basta, perché ci si aspetta che io faccia altro? Convincere una persona a comprare il mio libro mi sembra come cercare di convincerla a volermi bene: se deve succedere, succederà perché le verrà spontaneo.

Questo libro è come un figlio, e, amandolo di un amore quasi ottuso e incondizionato, vorrei che tutti ci vedessero quello che ci vedo io. Vorrei che cogliessero il simbolismo di cui l’ho riempito, e nessuno l’ha colto. Vorrei che i lettori capissero quello che voglio dire, che pensassero alle cose a cui io chiedo loro di pensare, ma mi accorgo già che ognuno ci cerca sé stesso o la propria storia o i propri interessi, o al limite me e le mie storie e fissazioni. Non ho cambiato la vita di nessuno. Il messaggio non è arrivato. E’ presuntuoso aspettarsi che il tuo libro cambi la vita di qualcuno, lo so. Ma per quale altro motivo, se non questo, dovresti scrivere? “Scrivi bene”, mi dicono, vabbè. E poi magari fanno qualche commento su quella cosa o quell’altra che li ha colpiti, o dicono qualcosa di generico: molto ironico, bello, brava, cose anche che fanno piacere, ma mentre parlano io faccio quasi fatica a lasciarli dire altro, come se fossi in imbarazzo o percepissi il vuoto nelle loro parole, sentissi che non ci siamo, allora voglio spiegare io il mio libro, decifrarlo, dare le chiavi che non hanno trovato, sottolineare i particolari che gli sono sfuggiti… come una stupida madre qualunque che crede di avere il bambino più speciale del mondo, e la mena a tutti in continuazione, e invece è solo un cazzo di bambino come gli altri.

Non posso entrare in un discorso su cosa significhi l’arte, sicuramente ogni artista o sedicente tale la intepreta a modo suo. Ho degli amici che sono musicisti, e dicono di non voler parlare di musica. Suonano, e basta. Forse anch’io dovrei scrivere, e basta. E quasi quasi ho paura di vedere cosa ne è di quello che scrivo. Se io scavo, ricordo, mi esalto, mi prendo male, mi spremo, indago, piango, tutto questo per scrivere, e poi non riesco non dico a toccare chi legge, perché per toccare tocchi di sicuro, ma a far sì che vedano le cose un po’ come le vedo io, che si pongano le domande che mi sono posta io, che la loro visione del mondo cambi un po’, anzi, se poi non riesco a sapere se fanno tutto questo, ma mi sembra di no, non ora, non loro, magari un giorno qualcuno, o forse sono io che non mi sono spiegata… bah. Ho la netta sensazione di peccare di ingenuità o presunzione, ma non capisco esattamente quale delle due e in quale punto.

In tutto ciò, ho perso la voglia di vendere il libro. Ho solo voglia di scriverne un altro, scrivere ancora, spiegarmi meglio.


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