DISMEMBER – Massive Killing Capacity
Ciccio Russo: Massive Killing Capacity è l’ultimo grande capolavoro uscito dalla scuola di Stoccolma, proprio nell’anno in cui esplodeva quella di Goteborg, nonché il miglior disco dei Dismember in assoluto, un picco di ispirazione e felicità creativa mai più ripetuto. La produzione di Skogsberg è perfetta nell’esaltare la componente melodica maideniana (On frozen fields, l’indimenticabile Collection by blood) e la vena thrashettona slayeriana che erano state accentuate in questo album, il più riuscito anche in quanto il più accessibile e groovoso. To the bone e Casket garden farebbero scapocciare anche un morto e riprendono un paio di intuizioni degli Entombed di Wolverine Blues. Uno dei pochi rimpianti che mi porterò nella tomba è non essere mai riuscito a vedere i Dismember dal vivo. Che gli costa fare qualche festival estivo?
Luca Bonetta: Nella vita ci sono domande e dubbi laceranti a ogni angolo: dubbi sul lavoro, sulle donne, sull’auto migliore, sul percorso di studi, se sia il caso di passare alla quinta birra media e via discorrendo. Una delle questioni più spinose per me è quale sia il disco migliore dei Dismember tra Massive Killing Capacity e Death Metal. Il primo compie vent’anni questo mese e ha dalla sua una genuinità che ai giorni nostri è arduo ritrovare nelle band più giovani: pezzi dall’impatto della title-track o Collection by Blood sono capaci di indurre un inconsapevole scapocciamento con conseguente buonumore, grazie a composizioni dalla semplicità disarmante (stiamo pur sempre parlando dei Dismember) ma piene di ottimi spunti e idee calzanti. Il secondo ha tutte queste caratteristiche unite ad una forza d’urto decisamente maggiore, la capacità di “spettinare” l’ascoltatore come in pochi sanno fare. Nonostante questo rimango più affezionato al primo, sarà anche per l’artwork che mi colpì particolarmente la prima volta che lo vidi, con questo stile che richiama un po’ i Bolt Thrower di Realm Of Chaos. E insomma il quesito per me resta aperto tutt’ora, ma in fondo chi se ne frega, certi dischi esistono per essere goduti e basta, per le seghe mentali c’è sempre Pitchfork.
SYMPHONY X – The Damnation Game
Cesare Carrozzi: Mi piaceva più il primo, nonostante ci cantasse sopra un tizio (di cui non ricordo assolutamente il nome) che non si avvicinava neanche alle magie vocali di Russell Allen, ancorchè quest’ultimo fosse ancora acerbo. The Damnation Game è una sorta di lavoro di transizione tra l’irruenza del cd precedente e la sofisticatezza melodica del successivo, che poi sarebbe l’arcinoto ed osannatissimo (a ragione) The Divine Wings Of Tragedy. Il maggior pregio di questo disco sta proprio nell’esordio vocale di Allen, perché, se alla voce fosse rimasto il vecchio cantante, l’album sarebbe risultato peggiore del precedente, tanto per accennare a quanto la qualità del canto faccia la differenza per la riuscita di un disco o meno. Tornerò sull’argomento scrivendo qualcosa sull’ultimo lavoro, incidentalmente, proprio dei Symphony X. Mi raccomando, ricordatevi di respirare nell’attesa, eh?
SAXON – Dogs Of War
Ciccio Russo: Oggi i Saxon, abbondantemente sessantenni, scrivono dischi pesanti e aggressivi e dal vivo picchiano come un gruppo thrash. C’era stato un tempo, alla fine degli anni ’80, nel quale si erano dati all’hard rock strappamutande e radiofonico, che se all’epoca ti faceva beccare fregna ci può pure stare ma nel ’95 quella roba era ormai finita da un pezzo. Dogs Of War è uno dei dischi del lento e faticoso riadattamento, quando avevano iniziato ad abbandonare la vena AOR piaciona e pappona ma erano ancora, come dire, a metà del guado. Riascoltato oggi, è pure carino, al netto di un paio di ritornelli troppo sbarazzini. Ma in quei frenetici mesi avevi molte altre alternative migliori per spendere la tua paghetta di quindicenne.
RANCID – And Out Come The Wolves
Il Messicano: Da persona cresciuta anche con il punk ed il punk/hc mi sono sempre sentito offeso dall’esistenza di questi patetici mentecatti di plastica vestiti da carnevale tutto l’anno e, soprattutto, dalla loro stronza musica per minorenni. Quando ero ragazzino piacevano solo alle puttanelle ed ai “punk” di cartone sotto i quindici anni che li annoveravano tra i loro gruppi preferiti insieme ai tristissimi Green Day e ai nauseabondi Modena City Ramblers. Ma poi, dico io, che cazzo vi atteggiate, visto che siete putridume insignificante e la vostra musica fa talmente cacare che mi viene voglia di rivalutare una dozzina di zanzare che mi ronzano nelle orecchie a mitragliatrice e mi pungono le palle mentre scopo in culo una baldracca lercia non identificata (rimorchiata in una dancehall ad agosto) in un bed and breakfast da 10 euro a notte senza ventilatore e con la finestra rotta? Ma morite.
FATSO JETSON – Stinky Little Gods
Enrico Mantovano: In svariati anni di militanza concertistica, raramente mi è capitato di incontrare personaggi più gentili e disponibili di Mario Lalli. Lo scorso febbraio, nella familiare cornice del Sinister Noise di Roma, trascorremmo quasi mezz’ora a discutere dell’origine dei rispettivi nomi: Mario elencò minuziosamente tutti i membri del clan Lalli che si chiamano come me e terminò questa accurata disamina onomastica offrendomi una birra al bar del locale. La misura della sua umiltà è direttamente proporzionale all’importanza del ruolo da lui rivestito nella scena stoner mondiale, di cui si può a pieno titolo considerare il padre fondatore. Stinky Little Gods profuma di polvere e sudore, di cataste di amplificatori erette fra i canyon della California e di strane droghe messicane. Rimane uno dei vertici assoluti della produzione desertica, ideale punto di equilibrio tra le derive lisergiche del precedente gruppo di Lalli, gli Yawning Man, e le sperimentazioni che caratterizzano la successiva produzione dei Fatso Jetson. È un album costruito sulla strada e per la strada, da gustare mentre l’asfalto rovente scorre via veloce insieme a ogni accenno di frenesia urbana.
KAMELOT – Eternity
Cesare Carrozzi: Non sono mai stato un estimatore dei Kamelot. O meglio, ho consumato un paio di loro lavori, nello specifico Karma e The Black Halo (che poi rimane quello che mi piace di più, diciamo), ma gli altri, tranne qualche pezzo spurio preso qui e lì, non è che mi abbiano mai acchiappato più di tanto. Questo poi men che meno. Non che sia realmente brutto ma è insipido da morì, sembra uno spompatissimo mezzo disco dei Crimson Glory con un monco alla chitarra e le tastiere Ciocorì. Il cantante non era manco male ma esagerava davvero nel tentativo di copiare il compianto Midnight, senza possederne però l’innato carisma. Vabbè. Ovviamente dei Kamelot i primi tre dischi non se li ricorda nessuno e la discografia ufficiosa pare da The Fourth Legacy. Ecco, diciamo che per quanto mi riguarda può rimanere tutto così com’è.
BRUJERIA – Raza Odiada
Il Messicano: Con il mio primo gruppetto, ormai diversi anni fa (non troppi meno di venti), avevamo l’abitudine, tra le diverse attività ludiche post-prove, di ascoltare dei dischi a volumi disumani, sudati come maiali. Tra i più gettonati c’era proprio questo, perché spaccava e perché alla fine aveva, come traccia nascosta, un’invocazione satanica in spagnolo talmente ignorante e pecoreccia da ridurti il titolo di studio al solo codice fiscale. Che poi, vabbè, era il linea con tutto il resto dell’album, tra immigrati messicani clandestini, traffico di droga, morti ammazzati e orgoglio ispanico. Approfitto dell’occasione per salutare i miei due compagni di avventura dell’epoca, Febbralio e Trezio. Il primo lavora nella jungla e ha uno stipendio come si deve, mentre il secondo, purtroppo, ha fatto una fine terribile: vive in Svizzera con la sua compagna e ha pure una figlia piccola. Che cazzo di scherzi fa la vita. Proprio con Trezio, una decina di anni fa, vidi i Brujeria dal vivo nel giardino di una villetta in mezzo al nulla, tra bikers e nazisti che facevano il saluto romano ad El Brujo, ma questa è un’altra storia. Agosto: moglie mia non ti conosco.
ABIGOR – Nachtymnen (From The Twilight Kingdom)
Ciccio Russo: Primo gruppo black metal austriaco ad acquisire un minimo di notorietà insieme ai Summoning, con i quali condividevano allora il cantante Silenius, che li lascerà nel ’99 dopo quattro full e due ep. Di quel periodo, dopo il quale ho smesso di seguirli del tutto, Nachtymnen resta il disco che preferisco. L’assalto iniziale di Unleashed Axe Age (bella batteria) sembra messo apposta per fuorviare. A farti saltare è la successiva Scars In The Landscape Of God, con quella struggente voce femminile e quelle chitarre dilatate, meste, raggelanti. Quando vanno sparati, al netto di stacchi improvvisi dove appaiono chitarre acustiche e synth a vanvera, perdono quella peculiare e oscura epica, non dissimile da quella sviluppata dai Summoning, che li distingue dagli scandinavi e li rende personali. Rientreranno nei ranghi già con l’album successivo. Scopro ora che sono ancora in attività e non ho la minima idea di che siano diventati.
RAINBOW – Stranger In Us All
Cesare Carrozzi: Non ha avuto tutto ‘sto successo ed è davvero un peccato, oltre ad essere l’ennesima riprova che la gente non capisce un cazzo di niente. Tanto non ebbe successo che alla fine il vecchio Blackmore appese la Stratocaster al chiodo e si diede alla musica medievale armato di liuto, calzamaglia e parrucchino, convinto da Candice Night, che collaborò ai cori e che poi divenne sua moglie (con la bellezza di ventisei anni di meno rispetto al marito. Poi dice che tira più un pelo di figa che un carro di buoi. Tra l’altro, voglio dire, come fanno? Ma ve l’immaginate Blackmore di sera prima di mettersi a letto con il pigiama lungo che si toglie la parrucca e l’appoggia sul comodino vicino alla candela? Ehhhh, che figata, cara Candice), mettendo su i Blackmore’s Night. Comunque, dicevamo, Stranger In Us All è un discone. Tutti i pezzi spaccano a partire da Wolf To The Moon, per passare a Black Masquerade (capolavoro), fino ad Hall Of the Mountain King e a quella Still I’m Sad spesso riproposta dal vivo in passato ed incisa come strumentale ma mai con qualcuno alla voce. Tra l’altro il lavoro di Doogie White dietro al microfono è davvero encomiabile. Per brevità ho citato giusto qualche pezzo ma, ripeto, sono tutti belli. Se non l’avete mai sentito, prendetevi a calci e poi recuperatelo, perchè vent’anni quando si parla di lavori così belli davvero non significano nulla e vi assicuro che Stranger In Us All non è invecchiato di un giorno.