Forse vi ho già fatto in precedenza il pippone sul disco epocale, sul disco che esce una volta ogni dieci anni e che magari è una sorta di “reincarnazione” di un altro disco epocale pubblicato nei decenni precedenti. Puntualizzo: io credo nella reincarnazione. Credo fermamente che esista un picco creativo in un genere, nella storia di un artista o una band, che capita una volta sola. Il resto possono essere ottimi o eccellenti dischi, persino capolavori conclamati, ma l’opus magnum arriva una volta sola. O cinque o sei volte di seguito, se siete gli Iron Maiden o pochissimi altri. E credo che sulla scia di certi capisaldi essenziali ne nascano altri, anche a distanza di decenni.
Iniziamo a raccontare questa storia nel 1987, in quel di Zurigo, dove ordine ed efficienza apparentemente regnano sovrani. I servizi pubblici funzionano alla grande e la gente paga le tasse. Eppure i tossici si bucano nelle strade e nei parchi del centro della città e l’odore di sangue, vomito, feci e decomposizione è fortissimo nei pressi di Platzspitz. In questo scenario vede la luce uno dei capolavori che sconvolsero per sempre la concezione di “dark” e “gothic” nel metal, con una poetica decadente e un velo di tristezza che fece storcere il naso ad alcuni fan più oltranzisti ed esaltare coloro che si resero conto della portata del cambiamento. Sto ovviamente parlando di Into the Pandemonium dei Celtic Frost. Chi non ha mai sentito gli struggenti lamenti di Mesmerized, le suggestioni romantiche di Rex Irae o la voce di Claudia-Maria Mokri è pregato di acquistare familiarità il più presto possibile con l’opera in questione (anche se credo siano davvero in pochi tra i nostri lettori).
Che la storia si potesse ripetere meno di dieci anni dopo sembrava impensabile, almeno al sottoscritto, finché nel 1995 non acquistai una copia dell’appena uscito The Silent Enigma in un negozietto cagliaritano che Ciccio conosceva bene, un luogo intimo e per pochi appassionati che infatti chiuse pochi anni dopo con una svendita ghiottissima nella quale recuperai alcune perle che ancora custodisco. The Silent Enigma arriva dopo un periodo difficile e di difficili scelte per la band di Liverpool. Un’epoca, quella di Darren White, è appena terminata. Allora il suono proveniente dal nord dell’Inghilterra era qualcosa di estremamente valido ma diverso rispetto al fascino melanconico proprio dei Celtic Frost dell’era Pandemonium. Un suono appena “sgrezzatosi” dalle influenze cavernose e claustrofobiche rappresentate in maniera efficace dai primi Anathema, appunto, dai Paradise Lost pre-Icon e dai My Dying Bride, che avevano appena completato il loro ciclo di raffinazione del proprio sound con The Angel and the Dark River. Tuttavia nessuno di questi lavori è alla portata di The Silent Enigma, secondo me.
Un viaggio in un mondo fatto di suggestioni wordsworthiane e di paesaggi che suggeriscono le opere di John Constable o di William Turner. Pezzi indimenticabili come la pesante Restless Oblivion o la malinconica …Alone, per non parlare di Nocturnal Emission o della leggendaria A Dying Wish, passando per le title-track, che veniva allora trasmessa da Headbanger’s Ball nella sua appendice Into The Pit, dedicata alla musica estrema, e che fu il mio primo approccio con un album che, come tutte le grandi opere d’arte complesse e pregne di significato, necessita tempo per essere assimilato e compreso appieno nella sua grandezza. Un suono carico di tensione emotiva, accompagnato da eteree melodie di chitarra e romantici arpeggi, nonché dalla voce di Vincent Cavanagh, che rivelò al mondo la sua espressività drammatica, che nei momenti più struggenti ricorda proprio quella di Thomas Gabriel Fischer nel decennio precedente.
La band di Liverpool seguirà successivamente un cammino artistico dal quale il sottoscritto si è discostato per molti anni, fino al ricongiungimento avvenuto di recente con il fenomenale Weather Systems. Ma di lavori come questo, nell’ambito del genere, credetemi, non ne vedremo più. A meno che The Silent Enigma non si reincarni in qualche altra opera nei decenni a venire. (Piero Tola)