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Avere vent’anni: dicembre 1995

Creato il 31 dicembre 2015 da Cicciorusso

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VIRGIN STEELE – The Marriage of Heaven and Hell (part two)

Trainspotting: Questo è il disco che inaugura l’ultima era dei Virgin Steele, quella che partorirà i capolavori Invictus e il primo The House of Atreus. Siamo ancora in fase di sperimentazione, o quantomeno di mutazione, e lo si avverte sin dal riff principale di Crown of Glory, stradaiolo e ottantiano, che sarebbe impossibile da ritrovare nei dischi successivi. Però ci siamo quasi: anzi, ci siamo. Qui ci sono i capolavori Emalaith e Prometheus the Fallen One, vere e proprie anticipazioni profetiche dello stile dei dischi successivi, ma anche parecchie altre cose che sarebbe un peccato perdere per strada. Gli unici tre pezzi suonati dal nuovo batterista Frank Gilchriest sono probabilmente quelli composti per ultimi, e fungono da trait d’union con i dischi successivi rappresentando una netta frattura con lo stile di pezzi come Unholy Water, ancora basati sul riff come nella loro precedente discografia. Personalmente sono innamorato del precedente Marriage part one, così amabilmente imperfetto, e del successivo Invictus, così monumentalmente perfetto, e questo Marriage two paga lo scotto di capitarci in mezzo. Ma rimane comunque un disco splendido, e trascurarlo sarebbe un tremendo errore.

Esoptron

SEPTIC FLESH – Εσοπτρον

Ciccio Russo: Qua a Metal Skunk idolatriamo i Rotting Christ e siamo convinti che siano uno delle cose più belle mai accadute al metal estremo ma la band greca che, col tempo, ha ottenuto l’affermazione mainstream maggiore sono forse i Septic Flesh. Il loro attuale suono, epico e vagamente pretenzioso ma diretto e accessibile, riesce a farsi piacere sia dai blogger americani che non sanno manco chi siano i Varathron che da chi li seguiva dallo straordinario esordio del ’94 Mystic Places of Dawn, rispetto al quale Esoptron è forse un leggerissimo passo indietro. Spiccavano rispetto ai connazionali perché allora nessuno ad Atene suonava pezzi così rallentati e strutturati, nemmeno i Nightfall, rispetto ai quali i Septic Flesh si distinguevano per una torpida vena melodica che guardava alla Svezia. Diciamo che sapevano suonare un po’ meglio, vah. Le suggestioni pagane di The Eyes of Set riescono ancora ad avvincere. Recuperatelo.

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LIFE OF AGONY – Ugly

Manolo Manco: Abbandonato l’hardcore punk delle origini, i Life of Agony con Ugly contribuiscono a definire i canoni stilistici di quello che sarà poi chiamato alternative metal: i riff sono una versione un po’ sporca (tipica produzione di metà anni ’90) di quelli di Toni Iommi e verranno ampiamente saccheggiati e imbastarditi negli anni a venire dai gruppi nu-metal, ma seguono scelte melodiche quasi punk rock (i Social Distortion erano uno dei gruppi citati tra le influenze). Il vero tratto distintivo dei Life of Agony è però la voce, che sarebbe stata adatta ai dischi provenienti da Seattle in quel periodo, cupa e quasi narcolettica, in grado di rendere ipnotica l’amalgama sonora della band di Brooklyn. Seminali.

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MORTUARY DRAPE – All the Witches Dance

Giuliano d’Amico: Può sembrare strano, ma i ricordi che più mi legano al primo full-length dei Mortuary Drape (uscito a nove anni dalla fondazione, il che la dice lunga su quanto il parto sia stato sofferto) sono prettamente extramusicali. È ovvio cominciare dalla copertina, che – insieme a quella di Secret Sudaria – certo non la mandava a dire e metteva subito in chiaro come stavano le cose. Potremmo proseguire con l’apparente sciatteria della musicassetta grigia che comprai in un negozio di Torino, e che invece svelava il carattere essenziale e ruspante di Walter e del suo gruppo, sincero come un bicchiere di Barbera d’Asti rituale.
Non lo capii subito, All the Witches Dance, soprattutto ne faticai a comprendere la schiettezza e la brutalità. La rivelazione venne un paio d’anni dopo quando risentii i pezzi dal vivo e mi resi conto della loro vitalità carica di pensiero negativo, a mio parere ancora imbattuta, anche se tenuta in vita da gente come gli Abysmal Grief. Oggi il loro sound è un po’ cambiato, e il successo finalmente ottenuto – si potrebbe pensare – rischia di smorzare un poco la schiettezza degli esordi. Ma vedere sulla loro pagina Facebook, qualche giorno fa, la pubblicità del nuovo merchandising indossato da “un vecchio amico”, mi ha fatto capire che non è vero niente, e che sono rimasti ruspanti e sinceri come lo erano nel 1995.

letmedream

LET ME DREAM – My Dear Succubus

Charles: In questa rubrica trattiamo anche di gruppi minori verso i quali, per un motivo o per l’altro, nutriamo affetto pur riconoscendone tutti i limiti. È il caso dei Let Me Dream, band finlandese, sconosciuta ai più, che una ventina di anni fa esordisce con un disco di death/doom ammollato in un brodo gothic. Io li ho scoperti grazie a Ciccio tanti anni dopo e oltre a questo ingenuo e grezzo full, My Dear Succubus, conosco solo il successivo EP Medley Rain (ma di questo ricordo solo la strappalacrime Julia). Forse non sono la persona più adatta per parlare di questo gruppo; e chi può esserlo? Non saprei nemmeno se e a chi consigliarlo oggi. Insomma, a me ricorda il periodo universitario e dell’infatuazione per il gotico facile e le mutandine di pizzo nere. Se riuscite a trovarlo e non avete di meglio da fare dategli un ascolto, che qualche intuizione buona c’era.

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MONUMENTUM – In Absentia Christi

Piero Tola: Annunciato da tempo come forthcoming sui cataloghi Deathlike Silence, etichetta del defunto Oystein Aarseth, al secolo Euronymous, dopo mille peripezie legate appunto ai ben noti avvenimenti norvegesi di quell’epoca, In Absentia Christi finalmente vedeva la luce. Il titolo in latino mi attirava di brutto. Aveva quell’aura di malvagità al punto giusto da spingere un quattordicenne a buttarcisi a pesce. E non mi sbagliai. Ancora oggi ascolto questo capolavoro di musica esoterica dalle atmosfere decadenti con lo stesso orecchio di allora. Non fu nemmeno tanto complicato abituarsi alla proposta musicale dei Monumentum, perché la bellezza delle atmosfere create dalla band di Roberto Mammarella è evidente e innegabile, ed è impreziosita dalla voce suadente ed evocativa della brava Francesca Nicoli degli Ataraxia. Se non ce l’avete, peggio per voi.

Throne of Ahaz - Nifelheim

THRONE OF AHAZ – Nifelheim

Ciccio Russo: Black metal svedese senza pretese da gente del giro degli Ancient Wisdom che rubacchia un paio di idee da The Somberlain e tira fuori un esordio che ricordavo più appassionante (ero giovane e ingenuo) e che, riascoltato oggi, suona come il tipico prodotto di serie B simpatico ma estemporaneo. Il classico album fatto per cazzeggio e scritto in sala prove da gente che suonava nel frattempo in altri settantasei gruppi, insomma. I mid-tempo scapoccioni di Where ancients lords gather e A winter chant, però, divertono ancora. Faranno meglio con il successivo On Twilight Enthroned, dopo il quale si sciolsero improvvisamente.

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INTEGRITY – Systems Overload

Manolo Manco: Aaah, l’hardcore anni ’90. C’è realmente qualcosa di meglio? Gli Integrity, oltre ad avere uno dei nomi più cazzuti della storia, che solo a pronunciarlo evoca in me voglia di riscatto, coerenza e dirittura morale, sono tra gli intoccabili del genere. Pionieri del metallic hardcore più oscuro (oggi pesi massimi come i Trap Them sono tanto debitori della band di Dwid Hellion esattamente come degli Entombed) Systems Overload è un po’ un un ritorno alle origini youth crew ’88 dei membri della band, abbandonando il percorso innovativo dell apocalittico e soffocante Those who fear tomorrow, in favore di un songwriting in-your-face e più stereotipato, su cui svetta come sempre il cantato devastante di Dwid, ma sempre efficacissimo a mollare schiaffoni a tutti come solo nella scena hc di Cleveland sanno fare.

helheim

HELHEIM – Jormundgand

Charles: Iniziatori, insieme a Enslaved, Windir, Einherjer e Storm, del filone viking metal norvegese, gli Helheim dei primissimi anni ’90 sono ancora materia nera, informe e truculenta ma già col primo full, Jormundgand, iniziano a definire delle linee personali, molto semplici e dirette, proprie del viking e dei suoi principali riferimenti musicali (Quorthon) e tematici (la mitologia norrena). Un album che non nasconde tutto il suo essere acerbo ma dannatamente violento e in cui, come si diceva, sono presenti, a volte in fieri, altre più esplicitamente, alcuni elementi classici del genere come le linee vocali e cori evocativi della leggendaria potenza guerriera norrena. Gruppo da sempre sottovalutato, forse anche troppo, ma che, in effetti, non ha mai brillato o si è distinto per un album in particolare che potrebbe essere menzionato come fondamentale, ma quasi sempre allineati su una produzione coerente e scolastica. Ricordo che già il successivo Av Norrøn Ætt (famoso per la copertina in cui spolpano un osso di cinghiale o di altra bestia) era più facilmente riconoscibile come un album viking metal e resta quello che si fa riascoltare con più piacere. Punto debole della band, a mio parere, è la voce del cantante Vanargandr, non sempre convincente (cacofonica nel clean) e che si è dovuto affidare spesso ad aiuti, anche di peso (Hoest), per dare maggior corpo allo screaming e integrare i cori laddove necessario. I tre di Bergen sono ancora in circolazione e maggiormente oggi, con un album abbastanza ‘classico’ e bathoriano, mi piacciono perché non vogliono piacere a tutti i costi.

insidia

IN.SI.DIA – Guarda dentro te

Ciccio Russo: Come i corregionali Extrema, gli In.Si.Dia, dopo un esordio maggiormente debitore del thrash classico (e, nel loro caso, dell’hardcore), si panterizzarono al secondo album, tirando fuori un disco che nondimeno all’epoca fu recensito benissimo quasi ovunque e passava spesso nel mio walkman. Nella strumentale Nel silenzio è ospite Omar Pedrini e in fondo un lontano parallelo con i Timoria si può fare. Entrambi importavano suoni estranei alla tradizione italiana ma, utilizzando testi in lingua madre, tradivano quel vaghissimo ma innegabile retroterra cantautoriale (lo stesso dei Rhapsody, per fare un altro esempio) che, alla fine, è ciò che li faceva funzionare. Guarda dentro te, risentito a distanza di vent’anni, mostra tutti i suoi limiti ma ci rimango affezionatissimo. Limiti tra i quali ci sono anche i testi, ingenui e ripetitivi. A 15 anni tuttavia, in pieno sbrocco adolescenziale, ci stavano. Quello di Solo allora ce l’avevo addirittura appeso alla porta, pensate un po’. Si sciolsero poco dopo e si sono riformati nel 2013. Li ho pure beccati a Milano un annetto fa a un festival con gli At The Gates.

SAVATAGE - Ghost In The Ruins

SAVATAGE – Ghost in the Ruins. A Tribute to Criss Oliva

Trainspotting: I Savatage sono uno di quei gruppi di cui non vale la pena parlare, perché non c’è niente da dire che la loro stessa musica non esprima già, e molto meglio di qualsiasi parola. Un live album dei Savatage dedicato a Criss, morto solo due anni prima, assume un valore simbolico e sentimentale capace di far disseccare il cuore a chiunque un cuore ce l’abbia; e credetemi, non è scontato averne uno. Tanti anni fa mi è capitato di intervistare Jon Oliva e non potrò mai dimenticare il modo in cui, a più di dieci anni dalla sua morte, parlava del fratello. Dal tono della voce, dalle parole che usava, era chiaro non solo che Jon non si era ancora ripreso dalla perdita, ma che non si sarebbe ripreso mai più. Improvvisamente ho capito il perché abbia intitolato il primo disco senza Criss Handful of Rain: è tutto quello che gli era rimasto in mano. Noi siamo stati più fortunati: i Savatage hanno continuato ad esistere per qualche altro anno, continuando – nonostante tutto – a essere i Savatage. Ma riascoltare adesso questo live postumo, a vent’anni dall’uscita, continua a far male. Un giorno ritorneremo tutti a essere polvere, ma purtroppo non tutti nello stesso momento. Ed è questa la grande, tremenda ingiustizia della vita.



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