ULVER – Bergtatt
Trainspotting: è chiaro che voglio scrivere due righe su Bergtatt soprattutto per parlare del teorema degli Ulver: “buoni i primi, merda tutto il resto”. Queste due semplici frasette possono essere adattate alla maggior parte dei gruppi, vero, ma gli Ulver le hanno portate al parossismo. Bergtatt, il loro debutto, entrerebbe di diritto nelle classifiche dei dieci dischi migliori di tutti i tempi sulle riviste mainstream, se questo fosse un mondo perfetto e non la melma in cui cerchiamo di sopravvivere. I due successivi sono bei dischi, ma in ordine decisamente discendente. Poi? Che è successo? In che anno siamo? Ascoltare Bergtatt adesso, a quasi vent’anni di distanza da quando l’ho ascoltato la prima volta, e pensare alla discografia post-Nattens Madrigal, dà una sensazione di straniamento tipo il risvegliarsi in albergo dopo una sbronza il primo giorno di vacanza e non essere sicuri di cosa sia successo esattamente e del perché non hai mai visto quelle lenzuola prima in vita tua. Ho davanti agli occhi ora la lista di titoli che hanno tirato fuori negli ultimi quindici anni e ci sono cose che non sospettavo minimamente che esistessero. E io non discuto che possano piacere, per carità, non potrei mai dire questo: non ho sentito quasi nulla di tutta quella roba. Fa solo un po’ strano, ecco, che un gruppo capace di comporre uno dei dischi più belli di sempre poi abbia avuto quell’evoluzione. Non ho parlato molto del disco in sé perché non esistono parole per descrivere Bergtatt o, se esistono, io non le conosco. This is the magic that a name would stain.
Enrico Mantovano: Bergtatt è un album talmente immenso che trovare parole degne di tale bellezza risulta quasi impossibile. Se siete metallari, sapete di cosa parlo. Se non siete metallari, lo diventerete al primo ascolto. Amen.
UNLEASHED – Victory
Luca Bonetta: Sono legato agli Unleashed da un sentimento di affetto paragonabile a quello che molte persone nutrono per gli Iron Maiden. Intendiamoci, pure io sono un fan della Vergine di Ferro ma per questioni di gusti e mentalità sono più legato, concettualmente e “filosoficamente”, ad altri tipi di band. Gli Unleashed per me sono una di quelle garanzie che, nonostante l’incedere degli anni e il passare delle stagioni, rimangono inalterate. Cambiano gli amori, cambiano gli amici, ma Johnny Edlund è sempre Johnny Edlund. Victory è il quarto full di questi svedesi ed è forse l’unica vera variazione stilistica che gli Unleashed abbiano mai compiuto in più di vent’anni di carriera. Prese le distanze dalle sonorità prettamente swedish dei lavori precedenti, i Nostri variano su un sound di stampo molto più motorheadiano, meno intricato stilisticamente e dannatamente più festaiolo e sfascione. L’anima death metal rimane e si sente tutta, ascoltare Legal Rapes per rendersene conto, ma l’atmosfera è in generale molto più disimpegnata. Mi piace pensare che questo disco sia nato durante un paio di sessioni in sala prove, tra qualche cazzata con gli amici e svariate lattine di birra. Buon compleanno, Victory.
STRATOVARIUS – Fourth Dimension
Cesare Carrozzi: Ricordo che quando uscì The Fourth Dimension mi piacque molto ma non quanto il precedente Dreamspace, pur essendo davvero un bell’album, suonato e prodotto sicuramente meglio. È che gli Stratovarius con l’innesto di Kotipelto alla voce già si stavano avviando a diventare, da gruppo di ultra-nicchia, uno di quelli di punta dell’esplosione power metal che a cavallo degli anni novanta del secolo scorso dominava la scena metal europea, e la cosa non è che mi piacesse molto. Intendiamoci: ho amato ed amo tutt’ora gli Strato di Episode, Visions e Destiny. Ma i primi tre album erano davvero qualcos’altro, unici se vogliamo, pur con tutti gli evidenti limiti di una formazione che era ben lontana dalla perizia tecnica di quella mostrata da Episode in poi, ma evidentemente coesa attorno alla capacità compositiva di un Tolkki assai ispirato, sia a livello melodico che di scelta dei suoni. Per dire, sarà pure vero che Antti Ikonen tecnicamente non vale un mignolo di Jens Johansson ma, amici miei, che suoni, che atmosfere. Vabbè. Comunque, per tornare a The Fourth Dimension, pezzi come Galaxies, Winter, per non parlare di Distant Skies o Against The Wind oppure ancora Twilight Symphony, sono dei piccoli capolavori. Certo c’è anche qualche caduta di stile, vedi 030366 (che poi è un tentativo mal riuscito di scimmiottare i Queensryche di Screaming In Digital) oppure la strumentale Stratovarius (per carità…), ma in ogni caso The Fourth Dimension fotografa gli Stratovarius in una fase, seppur musicalmente transitoria, di assoluta qualità. Se state leggendo queste righe io vi consiglierei di riascoltarvelo sto disco per il ventennale dall’uscita. Poi come vi pare. (Cesare Carrozzi)
Trainspotting: Questo disco è bellissimo. Davvero si potrebbe finire di parlarne qui perché Fourth Dimension, come uno qualsiasi dei vecchi dischi degli Stratovarius, per essere compreso ha semplicemente bisogno di essere ascoltato. Belle melodie, semplici, senza troppi orpelli, che si susseguono secondo le strutture classiche della forma canzone: a quei tempi il talento compositivo di Timo Tolkki riusciva incredibilmente a far passare in secondo piano i suoi gusti musicali tremendi, e quando questi ultimi diventavano troppo evidenti lui riusciva nonostante tutto a trasformarli in oro, come succede, ad esempio, in We Hold The Key. Eppure gli Stratovarius, gruppo di riccardoni con le influenze musicali sbagliate e capace di comporre in fondo solo semplici canzoncine (tanto che i vari tentativi di fare delle suite oltre i dieci minuti sono quasi sempre falliti miseramente), alla fine diventarono uno dei gruppi più influenti e in definitiva migliori della storia ormai trentennale del power metal. Ma c’è un punto fondamentale che li ha resi unici: gli Stratovarius introdussero nel power metal la malinconia e il senso di vuoto, percepiti e subiti a volumi insostenibili; e Fourth Dimension, nonostante sia il primo con Kotipelto e il primo che inizia a staccarsi definitivamente dal limbo dei primi tre dischi, è intriso di quel pessimismo cosmico e quell’horror vacui che solo la Finlandia ha dimostrato di saper trasmettere fino in fondo.
SLOWDIVE – Pygmalion
Enrico Mantovano: No, cari amici: anche se la prima traccia s’intitola Rutti, questo non è un disco dei Nanowar. Pygmalion esce in piena esplosione britpop e consacra gli Slowdive come uno dei gruppi più importanti e sottovalutati degli anni ’90. La genesi dell’album ricorda, mutatis mutandis, quella di Dopesmoker degli Sleep: l’etichetta bramosa di sfruttare il trend del momento, un contratto da rispettare, tanta droga da consumare e una band caparbiamente intenzionata ad andare per la sua strada. Quello che ne esce fuori è un lavoro bellissimo, ipnotico, pressoché ignorato dalla critica (e dal pubblico) dell’epoca. Pochi accordi ripetuti all’infinito, loop che s’incrociano turbinando in un’atmosfera rarefatta e onirica, vibrazioni elettroniche fluttuanti tra sogno e realtà. Gente come Radiohead e Sigur Rós attingerà a piene mani da questo meraviglioso flop commerciale, inevitabile fine della storia degli Slowdive e insospettabile inizio della loro leggenda.
KATAKLYSM – Sorcery
Luca Bonetta: C’erano una volta i Kataklysm, realtà del sottobosco canadese dedita ad un death metal ferocissimo ed intricato, travolgente come poche cose all’epoca. Dico c’erano perché col tempo, diciamo da quel Shadows & Dust del 2002, i Nostri pare si siano adagiati su coordinate molto più (passatemi i termini) mainstream e commerciali. Ad oggi i Kataklysm suonano un death metal dai fortissimi rimandi melodici, catchy da risultare stucchevole e, cosa più grave, risultano inoffensivi come un cucciolo di foca monaca. In principio non era così, e proprio il debutto Sorcery che questo mese taglia il traguardo della seconda decina di vita è forse tutt’ora il lavoro migliore partorito dalla band del corpulento Maurizio Iacono. Arrangiamenti che tradiscono più di una volta l’ingenuità di una band ancora agli inizi, cosa perdonabilissima se contestualizzata all’interno di un disco che, pur sfiorando a tratti la cacofonia pura, racchiude una cattiveria e un impatto sonoro che i Nostri con il tempo perderanno complice, forse, l’ingerenza di mamma Nuclear Blast che, come il proverbiale lupo, non perde mai il vizio di traviare le band sotto la propria ala.
LACRIMOSA – Inferno
Charles: Da ragazzino conoscevo alcune persone più grandi di me che se ne andavano in giro conciate in modo strano, pantaloni di pelle nera, eyeliner nero (pure i maschi), ma con occhiaie più marcate del normale, questi capelli tirati su a forza e catenelle ovunque. Solo in seguito capii l’origine di quelle occhiaie, ma vabbé. I miei compaesani, provinciali, o li scansavano o li insultavano. Avvicinarli, farsi spiegare perché questo modo di conciarsi e rimanerne affascinati per sempre è stato veramente un attimo. Diventare drogato di The Cure è anche un attimo. Poi cresci, arriva il metallo, esci dalla provincia e un bel dì ti capita questo dischetto tra le mani, bianco e nero (bellissime le tavole di Stelio Diamantopoulos), che è gothic, darkwave e metal allo stesso tempo. Parecchio teatrale, forse troppo per le immediatezze a cui eri abituato, e poi che è ‘sta novità? Cantato in tedesco? Suona forzato! Tutto a un tratto, però, ti torna alla mente tutto quel mondo di gente strana, coi capelli dritti e le catenelle, che avevi messo da parte perché il metallo ti aveva ormai conquistato. Insomma, riparti da quei dischi e cominci pure a capirli sul serio. E’ andata più o meno così. Inferno, titolo evocativo, metal ma non troppo, sinfonico senza esagerare, dark nell’estetica e nel gusto dei testi (ricordo che rimasi affascinato dal duetto in No blind eyes can see), conteneva alcuni dei pezzi più belli in assoluto dei Lacrimosa, tipo Versiegelt glanzumstromt, Schakal e Der kelch des lebens (assolutamente stupenda). Stille sarà di un altro pianeta ancora, ok, ma Tilo Wolff e moglie venivano da tre album più ‘classicamente’ dark, quindi meno interessanti dal punto di vista di un metallaro. Qui si inizia a ragionare. Negli anni successivi continuerò a seguirli e verrò per questo anche perculato dai certi miei colleghi, perché ascoltare un gruppo che si chiama Lacrimosa non è affatto TRVE. Ma loro non hanno ben compreso l’importanza di rimanere collegati a quel mondo oscuro fatto, tra le altre cose, di belle coticone, chiappone e ciacione da club. Cose che apprezzi solo col passare del tempo.