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Avere vent’anni: la fine dei SEPULTURA

Creato il 26 febbraio 2016 da Cicciorusso

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I Sepultura, insieme ai Pantera e a pochissimi altri, sono stati per anni il gruppo di entrata nel mondo dell’estremo (cioè qualcosa che andasse al di là degli Iron Maiden o degli Ac/Dc, per capirci) per quelli della mia generazione. Ricordo come fosse ieri il sovrumano Arise che arriva come una mazza da baseball chiodata sulla mia povera testa di cazzo di ragazzino con quattro peli in faccia. Potrei parlare per ore di quanto i Sepultura siano stati importanti per il metal in generale e per il loro Paese o di quanta gente abbiano letteralmente “cresciuto” ma a ‘sto giro non siamo qui per questo. Chaos A.D. mi spiazzò. Dopo i primissimi ascolti non riuscivo a capire se mi piacesse o se mi facesse cacare. Una cosa, però, mi fu chiara sin da subito: quelli non erano i “miei” Sepultura. Per quanto quell’album possa indubbiamente piacere a qualcuno, per me è sempre stato letteralmente impossibile ascoltarlo senza pensare che quel gruppo fosse lo stesso che fino all’album precedente non aveva sbagliato un colpo. Ai tempi si poteva dare la colpa al produttore sbagliato, a un ordine della casa discografica che magari spingeva per far adeguare il proprio prodotto alle nuovissime tendenze aumentando le vendite o a vari altri fattori. E invece no. Chaos A.D. dava il via a una nuova era dei Sepultura, cioè l’inizio della fine. Tre anni dopo uscì Roots ed arriviamo quindi al nocciolo della faccenda.

Il successo di vendite di Roots fu enorme rispetto al passato e questo portò, in seguito e sino ai giorni nostri, a fare sì che la “massa” arrivasse addirittura ad identificare i Sepultura con questo disco e, nello specifico, con quella cazzo di Roots Bloody Roots, canzone d’apertura dell’album. Paragonare questo lavoro al glorioso passato dei Sepultura (compreso, addirittura, il mediocre Chaos A.D.) è impietoso, è vero, ma è anche inevitabile:  si tratta sempre dello stesso gruppo, quindi confrontare un album con i precedenti è giusto, nonché normalissimo. Il gruppo thrash metal venuto dal Brasile che aveva dato lezioni al mondo intero qui scompare completamente. Non ve n’è proprio più traccia. Al suo posto la Roadrunner ci consegna l’ennesimo parto di Ross Robinson (vero e proprio inventore del suono nu metal/groove/salcazzo novantiano), ma con una novità che da quel momento in poi accompagnerà il gruppo sino ai giorni nostri (se esistono ancora): i cazzo di tamburelli. Eh, sì: perché con questo disco il gruppo vuole tributare gli indios brasiliani (o qualcosa del genere), in quanto “radici” (“roots”, appunto) della cultura della loro nazione d’origine, e quindi pensa bene di cominciare a inserire quei maledetti tamburelli o djembe o come cazzo volete chiamarli. Insomma: quei cosi che i punkabbestia amavano suonare per strada fino a qualche anno fa, circondati da pulci e cani, allietando interi pomeriggi ed innumerevoli serate di un po’ tutto il resto della popolazione. Per l’occasione chiamarono a collaborare con loro Carlinhos Brown, un famoso percussionista brasiliano che, più o meno in quello stesso periodo, suonò anche nell’allucinante tormentone di Jovanotti, l’abominevole L’ombelico del mondo.

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Roots dura più di un’ora, per un totale di 16 pezzi (l’ultimo dei quali “nascosto”): cinque o sei sono più o meno decenti, diciamo, mentre tutto il resto è immondizia, tra roba pseudo-tribale e riempitivi buttati lì a cazzo giusto per aumentare il minutaggio. Questo disco sancì la fine dei Sepultura: non si ripresero mai più. Max Cavalera tempo dopo diventò lui stesso un punkabbestia pulcioso, lasciò il gruppo e fondò i pateticissimi Soulfly ed i Sepultura andarono avanti senza di lui. Un cazzo di incubo: i gruppi inutili diventarono due. La parte finale del testo della title track di Arise (uno dei miei dieci dischi della vita, se non si era capito) diceva: “Under a pale grey sky we shall arise”. Non era vero un cazzo. Sotto quel cielo grigio i Sepultura morirono nel febbraio del ’96. (Il Messicano)



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