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Avere vent’anni: luglio 1995

Creato il 31 luglio 2015 da Cicciorusso

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KYUSS – …And The Circus Leaves Town

Stefano Greco: La parabola che vede i Kyuss dall’essere la next big thing allo scioglimento definitivo dura solo pochissimi mesi. In primavera erano pronti per la gloria, in autunno li ritroviamo pensionati nell’indifferenza generale.“…And The Circus Leaves Town” è un titolo incredibilmente profetico oppure, ad essere maliziosi, magari Homme aveva in mente già tutto. L’epilogo della band di Palm Desert è uno di quegli album che nasce sotto il peso insostenibile del precedente. Sky Valley era e resta il capolavoro assoluto e inarrivabile dello stoner rock, la codifica ultima insuperata e insuperabile di un intero (sotto)genere. In quest’ottica Circus è un lavoro che nasce destinato a deludere e un po’ in effetti delude, troppi filler e la mancanza di coesione generale lo rendono a tratti poco fluido. I pezzi giusti, però, sono di quelli che ancora bruciano, la coppia centrale Phototropic/El Rodeo vale discografie intere degli innumerevoli imitatori a venire. E poi c’è il canto del cigno, l’album si chiude con quella che forse è la più bella ghost track mai incisa (Day One) che tra le altre cose è anche il pezzo che vorrei fosse suonato al mio funerale. Alla fine non è poco.

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MESHUGGAH – Destroy Erase Improve

Ciccio Russo: Riascoltando Destroy Erase Improve vent’anni dopo la prima cosa che mi viene in mente è quanto quello dei Meshuggah sia stato uno dei boom critici e commerciali più surreali e improbabili della storia della musica dura. Esiste un genere interamente basato su di loro, sulle chitarre a ventitrè corde, sui collegamenti tra i pedali quantici e così via. Insomma, lo saprete, c’è tutta una scena djent, con blog, festival di settore e così via. Per me quelli che ascoltano djent sono come i tizi che hanno perversioni sessuali bizzarre e complicatissime che non capisco. Nel senso che, finché non fanno male a nessuno, io non giudico mai la gente dalle perversioni, mi vanno benissimo, sono sicuro che siete delle persone a posto, possiamo andarci a fare una birra insieme tutte le volte che volete, magari senza parlare di musica, ma abbiamo concezioni diverse del piacere. Partiti da un death/thrash tecnico e deviato, gli svedesi iniziano a costruirsi la loro futura identità da un album che per l’epoca, a prescindere da quanto potesse piacere (io lo accantonai in un paio di mesi), era oggettivamente un esperimento inedito: filtrare i canoni estetici del metallone groovoso e ribassato anni ’90 attraverso soluzioni ritmiche o compositive che guardavano al progressive e al jazz e una visione personalissima dei suoni, ciò in una chiave comunque estremamente diversa da quella dei gruppi techno/death di pochi anni prima. In fondo un posticino nella storia del metal i Meshuggah se lo meritano anche solo per questo.

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ELEGY – Lost

Cesare Carrozzi: Ci sarebbe un botto da scrivere su questo disco ma fa caldo e non me ne tiene (direte voi: e chi cazzo ti costringe? e avreste pure ragione, se non fosse che questa fantastica rubrica dell’avere vent’anni ha proprio il senso di riscoprire perle – o anche dischi di merda – di quattro lustri fa, di cui magari qualcuno di voialtri zoticoni manco conosce l’esistenza. E quindi) però una cosa ci tenevo a dirvela: se vi piace il power/prog metal e non avete ‘sto disco in casa, siete dei poveracci. E vedete di rimediare, tipo subito. Perchè non solo gli Elegy sono stati una gemma di rara caratura che purtroppo, per varie ragioni, non è stata apprezzata come avrebbe meritato ma dei primi tre dischi della discografia della band di Henk van der Laars, gli anni d’oro se vogliamo, Lost è senza ombra di dubbio il migliore, quello maturo. C’è tutto, melodia, potenza, perizia strumentale, ispirazione. Tutto. Perfino l’hammond a un certo punto, mica pizza fritta e fichi. Reperitelo o deperite.

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PAUL CHAIN – Alkahest

Piero Tola: La carriera discografica di Paul Chain è lunga, molto lunga. Il buon Paoletto è in pista dal 1977 ormai e di “cose che voi umani…” ne ha viste parecchie. Alcuni diranno che il capolavoro della sua produzione potrebbe essere quel Life and Death che vide la luce nel 1989, e direi che non c’è proprio nulla di male nel sostenerlo. Tuttavia io sono più legato ad Alkahest, vero e proprio gioiello del doom, che in quanto tale vide la partecipazione di Lee Dorrian dietro il microfono. Le atmosfere che Paul riesce a creare coi suoi lenti riff e le liriche in una lingua tutta sua, che solo foneticamente suona come l’inglese, hanno contribuito a lasciare un segno indelebile nel magico mondo della musica lenta e tombale che a noi piace così tanto. Three Waters, Roses of Winter o l’infernale Voyage to Hell (già presente su Detaching From Satan, ri-registrata per l’occasione), dove Lee Dorrian dà il meglio di sé, rimangono negli annali del doom, e dovrebbero venire insegnate in tutte le scuole di musica cadenzata e sballona, se queste esistessero. Il contrasto tra la voce di Paul, pulita e cristallina, e quella di Lee, che sembra venire fuori da qualche girone infernale dove si tortura chi indulge nei vizi capitali, è uno dei punti di forza di quest’opera. Eccezzziunale veramente.

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MOTÖRHEAD – Sacrifice

Ciccio Russo: Ultimo disco registrato con la formazione a quattro e secondo con Mikkey Dee alla batteria. Würzel se ne andò cinque minuti dopo le registrazioni, sobillato dalla moglie secondo la quale la vera star del gruppo avrebbe dovuto essere lui. A raccontarlo, nella sua biografia, è Lemmy, che ricorda l’abbandono del chitarrista come la separazione che umanamente lo ferì di più in tutta la storia della band. Uno degli album dei Motörhead anni ’90 che preferisco, con una vena blues presa male che verrà accentuata nel successivo Overnight Sensation (sto questionando delle differenze tra due dischi dei Motörhead, attenzione). Il singolo, ovvero la title-track, non è manco il pezzo più bello, anzi. Quell’anno Lemmy compì mezzo secolo e i Metallica si presentarono alla festa travestiti a sua immagine e somiglianza per esibirsi in un set di cover del gruppo.

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KREATOR – Cause For Conflict

Piero Tola: Ricordo il ’95 come l’anno in cui il thrash perì del tutto. L’avvento del grunge aveva fatto quasi dimenticare il metallo pestone e molesto, e profetico fu quel Clash of The Titans che scarrozzò sui palchi di mezzo mondo le più importanti band del genere ma introdusse al pubblico gli allora semi-sconosciuti Alice in Chains, che tutto fecero fuorché sfigurare. Galeotto fu il forfait dei Death Angel, allora reduci da uno spaventoso incidente stradale che quasi costò la vita ad Andy Galeon e sostituiti proprio dai ragazzi di Seattle. L’uscita del mostruoso Time Does Not Heal nel 1992, autentica arma di distruzione di massa contenente ben 246 riff (cit. adesivo sulla copertina), aveva dato un po’ di respiro ad un filone che i veri aficionados non avevano mai dimenticato. E il 1994 era stato un anno di consolazione per tutti i thrasher con l’uscita di Divine Intervention, che risvegliava il fantasma di Reign In Blood con i suoi tempi nuovamente frenetici. L’anno successivo, però, nessuno si aspettava una mossa del genere da parte dei Kreator, reduci dal delundentissimo Renewal.

Comprai Cause for Conflict non appena uscì dopo aver sentito il singolo Lost, che beccai per la prima volta su Headbanger’s Ball e mi impressionò, con quelle chitarre compresse e quel riffing da impresa di demolizioni. Le sensazioni che ebbi da quell’anteprima vennero cementate dalla devastante Prevail, che apre l’album con un mid-tempo carico di sconquassanti sezioni di doppia cassa dell’abilissimo Joe Cangelosi, preso in prestito dai Whiplash, che, raccontò un soddisfatto Mille in un’intervista dell’epoca, era in grado di proporre almeno cinque diverse parti di batteria per ogni riff. L’album continua regalando soddisfazioni come la successiva Catholic Despot, pezzo dedicato a Giovanni Paolo II che farà piacere agli amici polacchi (“Catholic’s dictator – Swine without compassion – No respect for others life – Godsent corrupt saint” e altri simpatici epiteti). Purtroppo, al netto di martellate nei denti come Bomb Threat e Dogmatic Authority, il disco nel finale si appiattisce inesorabilmente e lascia un po’ l’amaro in bocca, con un prosieguo scandito da filler. Un guizzo che rimane la prova migliore di quella fase della carriera dei Kreator, che in seguito partoriranno due album, Outcast ed Endorama, tra i più noiosi della seconda metà degli anni novanta (oh, a me Outcast piace, ndCiccio).



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