Nell’agosto del 1995 ero a Londra per studiare l’inglese. La percezione per strada, nei negozi, nei bar, ovunque, era che esistesse una sola ed unica canzone al mondo: Supersonic. Andavi nei clubbini tipo Underworld, Astoria o Marquee e quando partivano le prime tre note la gente si metteva letteralmente ad urlare. Nella famiglia di cui ero ospite, le due figlie della padrona di casa, una mora e una roscia, avevano entrambe delle tettone giganti e suonavano Definitively Maybe dallo stereo ventiquattro ore su ventiquattro. Erano talmente belle che, nonostante fossi un concentrato di complessi e insicurezze, ogni tanto provavo anche a rivolgergli la parola e loro, con mio stupore, mi rispondevano pure. In una di queste occasioni mi feci prestare un numero di NME con la scusa che volevo sapere che concerti ci stavano in città. La rivista era tutto un panegirico della cool Britannia e tra le altre cose si parlava della oramai quasi imminente uscita del nuovo disco degli Oasis. I toni erano millenaristici, non so se qualcuno ne avesse ancora sentito una nota ma l’idea era che sarebbe stato una faccenda che manco Sgt Pepper o la Cappella Sistina.
Io in realtà gli Oasis non sapevo neanche bene chi fossero, a scuola mia c‘erano giusto un paio di tizi che avevano le loro magliette, uno di questi era detto curdo/lituano o qualcosa del genere, e se a Roma Nord negli anni ’90 ti beccavi uno di questi soprannomi a base di etnie inferiori voleva dire proprio che eri peggio della merda, di conseguenza nessuna credibilità possibile come opinion leader. Ma era il britpop tutto ad essere un’entità aliena. Io ero piuttosto diffidente, dopotutto stavo ancora smaltendo la grande sbornia di malinconia con cui i gruppi di Seattle ci avevano inondato e tutto a un tratto mi ritrovo in un luogo in cui esiste solo euforia alcolica, lucine colorate e le persone scopano fra di loro come se fosse una cosa normale. Io ero rimasto a Fell On Black Days e a due ore d’aereo il mondo è improvvisamente un posto bellissimo, la gente si diverte un sacco e feel alright. Per molti riporre le camicie di flanella nel cassetto e avvolgersi nella bandiera dell’Union Jack fu un passaggio semplice ed indolore, altri non lo fecero mai. Poche settimane dopo (What’s The Story) Morning Glory? è uscito nei negozi e ha fatto il botto serio, non avresti potuto ignorarlo neanche se avessi voluto; per tutto l’anno seguente ne hanno tirato fuori singoli a ripetizione e alcuni di questi sono le fra le canzoni più famose degli ultimi vent’anni. Wonderwall divenne uno standard istantaneo e fra cento anni la suoneranno ancora nei pianobar di Riccione. Ma non è quello il succo, gli Oasis di Morning Glory fanno molto più che scrivere delle belle canzoni, catturano lo spirito del tempo. Alla fine il rock and roll è in gran parte una roba che si gioca su un piano simbolico; i fratelli Gallagher prendono l’immaginario working class tutto football, crisps e pints of lager e lo sintetizzano in qualche forma di romanticismo in salsa hooligan. Ed è lì che vincono la guerra.
Perché, a leggerla in maniera critica (ossia a voler fare gli stronzi), sono roba piuttosto dozzinale, vengono dalla città che aveva tirato fuori Joy Division, Smiths, Stone Roses e il confronto messo così è impietoso. Anche a far paragoni con i diretti concorrenti dell’epoca non è che vada molto meglio, non hanno l’inventiva dei Blur né tantomeno lo spessore morale dei Pulp. A sentirli parlare poi sembrano essere quelli che si imbottiscono le mutande perché hanno il complesso di avere il cazzetto piccolo. Però sono anche il gruppo che se metti su a una festa tutti ne sanno le parole a memoria e le cantano a squarciagola come se non ci fosse un domani, perché è quella la loro grandezza: sono una band che appartiene a tutti, nessuno può realmente rivendicarne l’appartenenza esclusiva (cioè, alcuni lo faranno di sicuro, ma si tratta di mezzi fagiani che farebbero bene a sentire qualche disco in più). Don’t Look Back In Anger o Some Might Say suonate in qualsiasi luogo pubblico divenivano inni di una generazione che celebrava se stessa. Se eri pischello negli anni ’90 queste canzoni sono un pezzo della tua storia e fanno parte di te, che la cosa ti piaccia o meno. Uno può fare lo snob quanto gli pare ma ancora oggi Morning Glory resta lì a ricordarti chi eri e che c’eri. Ho un amico di Manchester che sostiene che a casa sua essere fan degli Oasis equivale a essere poco meno che un minorato mentale, da come me l’ha spiegata è come essere un fan di Ligabue. Tipo la feccia dell’umanità. Boh, può anche essere, ma alla fine l’unica cosa che riesco a tirar fuori da un discorso del genere è la differenza in termini di r’n’r fra i due paesi. Lì la merda è comunque un gruppo semi-fico, da noi la merda è quella vera. E io per un mondo in cui gli Oasis sono il gruppo più scrauso che esiste ci metterei subito la firma. (Stefano Greco)