Cosa hanno in comune band come St. Vitus, Carcass, Coroner e Kyuss? Risposta: che sono uniche nel loro genere. Sono riconoscibili per un inconfondibile marchio di fabbrica che può essere il wah e l’allucinante suono tipicamente fuzzed di Dave Chandler o la voce evocativa di Scott Reagers, oppure il ringhio di Jeff Walker. O altri elementi esclusivi come le sonorità “desertiche” dei Kyuss o la tecnica sopraffina e lo sconvolgente songwriting di Vetterli e compagni. Eppure c’è un ulteriore elemento che accomuna i nomi citati. Tutte e quattro le band si sciolsero negli anni novanta, e decisero di lasciarci con il loro proverbiale “canto del cigno” (Swansong dei Carcass, poi, lo era dichiaratamente). La piena maturità compositiva e le affascinanti divagazioni psichedeliche di And the Circus Leaves Town dei Kyuss ci fecero domandare se fosse effettivamente possibile raggiungere un livello più alto nel loro genere, mentre Grin rivelò al mondo un lato totalmente sconosciuto e fino ad allora inespresso dei Coroner: quello piu’ claustrofobico e lancinante al tempo stesso, con un album di una complessità, ecletticità e profondità stupefacenti. Gli album che ho citato non sono quelli che considero personalmente come i migliori delle rispettive discografie, ma sono delle gemme di classe pura e di matura consapevolezza dei propri mezzi che non possono lasciare nessuno indifferente. Die Healing è senz’altro parte di questa categoria di dischi. Doveva essere l’ultima pietra (tombale) di una carriera che si sarebbe fortunatamente riattivata anni dopo con l’estremamente convincente Lillie: F-65. È anche il lavoro che vede il ritorno della spettrale voce di Scott Reagers nella band di Los Angeles, e il cui tour di supporto vedrà subentrare prima problemi di compatibilità all’interno del combo, seguiti da delusione e sconforto, sfociando infine nel comunque previsto scioglimento, stavolta addirituttura precedente all’inizio del tour europeo già pianificato. Questo album doveva, secondo la “profezia” di Dave Chandler e soci, chiudere il cerchio dei Vitus così come era iniziato, con la stessa formazione. E lo fece in grandissimo stile.
Un suono cimiteriale come non mai, che rivaleggia tranquillamente con le loro formidabili produzioni degli anni ottanta. Una produzione stavolta più accurata, per cui fu scelto Harris Johns in virtù delle sue precedenti collaborazioni con i Sodom, e otto pezzi che sono imprescindibili nel doom. Dipendenze, emarginazione sociale e tematiche macabre che in cinquanta minuti accompagnano l’ascoltatore in un lugubre camposanto, e dove risalta la piena maturità artistica di una band semplicemente fondamentale nel suo genere. A partire dalla cupissima Dark World, a seguire con l’inno One Mind, altra dichiarazione di indipendenza e misantropia verso una società creata con lo stampino, proprio come lo fu Born Too Late nel decennio precedente. Passando poi per i lamenti disperati di Reagers in Let the End Begin, e così via. Non c’è un pezzo che non sia degno di nota. L’inquietante In the Asylum, per esempio, fa letteralmente accaponare la pelle. L’atmosfera da manicomio è agghiacciante. La follia e la paranoia la fanno da padrone, confermando, qualora ce ne fosse bisogno, che poche band sono in grado di trasmettere una sensazione di malessere come i St. Vitus. O forse nessuna.A contribuire ad ammantare questa release di leggenda c’è il fatto che nessun pezzo è mai stato suonato dal vivo con Reagers alla voce, poiché in occasione della rimpatriata live a Los Angeles del 2010, con la band ormai ufficialmente riformata, Wino cedette il microfono all’altro Scott per un encore, ma i Vitus eseguirono Burial at Sea invece di uno dei pezzi di Die Healing. Un fatto che verosimilmente si compirà tra poco però, visto che quest’anno i nostri gireranno l’Europa con Scott Reagers, riprendendo così da dove si erano fermati vent’anni fa, e presumibilmente presenteranno una scaletta pregna di pezzi da questo irrinunciabile capolavoro. Sarà forse questo evento a chiudere definitivamente il cerchio? O è lecito aspettarsi un altro disco? Chi vivrà, vedrà. (Piero Tola)