SAVATAGE – Dead Winter Dead
Trainspotting: Per qualche motivo questo è il disco dei Savatage a cui sono meno legato, non perché non mi piaccia ma perché gli altri mi piacciono di più, diciamo. Dead Winter Dead è quello più permeato dalle atmosfere da cartone animato natalizio della Disney che piacciono tanto a Jon Oliva al punto da averci costruito una carriera solista con svariati gruppi. Chissà che ne pensa del concept su Zio Paperone del tizio dei Nightwish. È comunque impossibile che in un disco dei Savatage non ci siano dei momenti altissimi, ed è anche vero che, seppure la suddetta atmosfera natalizia sacrifica il concetto classico di canzone come in Handful of Rain o Edge of Thorns, rende comunque i Savatage apprezzabili da un diverso profilo, più di sottofondo che da cantare sotto la doccia, per metterla giù così. Questo è stato un grandissimo gruppo anche se purtroppo un po’ sottovalutato perché perseguitato dalla nomea di gruppo difficile per palati fini, che ha finito per nuocergli; invece erano i Savatage e, anche in un disco sinfonico come Dead Winter Dead, scrivevano una Doesn’t Matter Anyway che piacerebbe a qualsiasi metallaro degno di una stretta di mano. Nonostante tutto, nel firmamento del metal la stella dei Savatage brilla come davvero poche altre.
SIX FEET UNDER – Haunted
Luca Bonetta: C’erano una volta i Cannibal Corpse e gli Obituary, c’erano una volta Chris Barnes ed Allen West, e c’era una volta l’idea di metter su un gruppo death metal che servisse da divertissement ai nostri due (allora) baldi giovani, ché di frattaglie e sangue non se ne ha mai abbastanza. Poi succede che Chris Barnes esce dai Cannibal Corpse e decide di concentrarsi proprio su quello che in principio doveva essere un side project. E forse è proprio qui il problema che affligge i Six Feet Under; fintanto che gli stessi musicisti in seno al gruppo prendevano il tutto come un “gioco” o, se vogliamo, come un modo simpatico per passare il sabato sera, farsi una suonata, bersi qualche birra e morta lì, le cose funzionavano pure bene. Il qui presente Haunted ne è una dimostrazione: semplice e diretto, senza fronzoli, cadenzato il giusto ma pieno di ottime idee e fondamentalmente divertente (Lycanthropy è quasi ridicola da quant’è semplice, eppure la ritengo una delle canzoni più fiche di sempre). Da qui in poi è stato tutto un susseguirsi di mezze cacate, qualche spunto carino qua e là ma nulla per il quale valga la pena anche solo impegnarsi ad ascoltare un disco intero.
ALASTIS – … And Death Smiled
Ciccio Russo: Il secondo album degli svizzeri Alastis è una delle ultime gemme grezze regalataci da quella che era una vera e propria scena a parte, sviluppatasi nei primi anni ’90 e defunta nella seconda metà del decennio con l’imporsi del gothic sound da parrucchiere targato Century Media. Death gotico? Dark metal? Chiamatelo come vi pare, certo è che quanto suonato allora da formazioni oscure e dimenticate come Let Me Dream e Krypt of Kerberos o da futuri pezzi grossi come Pyogenesis e Crematory, allora agli esordi, era un filone che aveva un’autonomia stilistica ed estetica tale da distinguerlo anche dalle sonorità tetre e soffocanti che avevano caratterizzato i primi passi di My Dying Bride, Anathema e Paradise Lost. Un riffing cadenzato e celticfrostiano, umori doom che lasciano spazio a suggestioni black, pezzi dalla struttura contorta dove gelidi arpeggi erompono all’improvviso in cavalcate death metal, un’atmosfera che nemmeno nei frangenti più melodici riesce a colorarsi di grazia, rimanendo sempre pesantissima e oscura. La ragione principale del fascino che dischi come … And Death Smiled conservano ancora a vent’anni di distanza è la loro imperfezione, il loro tenersi in bilico tra più generi, il loro fotografare perfettamente quel momento preciso nel quale la furia creativa e la libertà sperimentale del metal estremo di allora stavano per trasformarsi nell’istituzionalizzazione di nuove sottocategorie dai canoni precisi e riproducibili, abbastanza da garantirne un agevole sfruttamento commerciale. Per gli Alastis la normalizzazione arriverà già col lavoro successivo, uscito, guarda caso, per Century Media. Nel 2004, altri due dischi dopo, arriverà lo scioglimento. Io avevo già smesso di seguirli da un pezzo.
RAMMSTEIN – Herzeleid
Trainspotting: Io li ho scoperti con il successivo Sehnsucht, che già per me fu uno shock, ma immagino tre anni prima a sentire cose come Du Riechst So Gut, nonostante i Ministry avessero fatto, qualche anno prima, una canzone nel preciso stile su cui poi i Rammstein costruiranno una carriera. Però, con tutto il rispetto per il pezzo dei Ministry, quello che i Rammstein hanno fatto con Herzeleid è stato l’equivalente di una porta in faccia che ha lasciato un segno indelebile in moltissimo di ciò che sarebbe venuto dopo, scombussolando l’intera scena metal e affini, senza peraltro che mai nessuno riuscisse a imitarli in maniera credibile. Seemann è forse la loro migliore di sempre, e probabilmente proprio Herzeleid rimane la loro vetta insuperata.
VADER – De Profundis
Luca Bonetta: Giusto per dovere di cronaca vi racconto una cosa: i Vader sono stati il mio primo gruppo death metal in assoluto, poi sono venuti i Vomitory e vabbè, tutto il resto. Eppure la mia avventura con i polacchi non è cominciata con il qui presente De Profundis, ma con The Beast, disco targato 2004, parecchio thrashettone ma che a me tutt’ora piace un sacco. All’epoca non sapevo ancora che la band del buon Piotr vantava una discografia di tutto rispetto (così come non potevo sapere che andando avanti si sarebbero rincoglioniti, sigh…) al cui interno si trova anche il nostro festeggiato di questo mese. Secondo album in studio dopo quella perla che porta il nome di The Ultimate Incantation, De Profundis racchiude il meglio che la scena polacca dell’epoca potesse offrire: formazione a tre, il compianto Doc dietro le pelli a macinare tutto, cattiveria e cristi tirati per il collo. Meno male che c’è questa rubrica a ricordarmi che il mondo, forse, non fa poi così schifo. Al limite uno si mette su Blood Of Kingu e torna il sorriso.
CREMATORY – Illusions
Ciccio Russo: Forse non sono la persona più adatta a parlare dei Crematory, dei quali apprezzo solo il debutto Transmigration, death/doom alla vecchia che lasciava però già trasparire quell’approccio acchiappone che trasformerà i tedeschi in uno dei maggiori successi commerciali della scena gothic metal. Illusions, terzo disco del quintetto di Mannheim, è l’album col quale i Crematory, senza ancora staccarsi del tutto dal retroterra estremo, iniziano a codificare la formula che farà la loro fortuna, soprattutto in madrepatria. Dopo averlo riascoltato a vent’anni di distanza, ammetto di averlo trovato pressoché insostenibile e di aver fatto una fatica boia ad arrivare alla fine. Tastiere pompose e cafone da synth pop anni ‘80, linee vocali costituite al 50% da parlato, pezzi dalla struttura elementare e ripetitiva, quasi sempre basati sul solito mid-tempo di tre accordi. Insomma, tutti i peggiori stereotipi del metallozzo crucco da classifica più un paio di intuizioni rubacchiate ai Paradise Lost di Icon. Davvero poca roba. E non me ne voglia Charles che ha avuto sempre un debole per loro.
SENTENCED – Love & Death
Trainspotting: Nient’altro da scrivere rispetto alla recensione di Amok, uscito solo nove mesi prima, e di cui Love & Death è una raccolta di outtakes. I quattro pezzi starebbero benissimo su Amok, sia stilisticamente che qualitativamente, diciamo così. È incredibile che a partire dal disco successivo siano diventati davvero un altro gruppo, con nessun tipo di punto di contatto con il passato; ed è incredibile che entrambe le epoche siano ugualmente meravigliose, anche se una ha avuto il tempo di svilupparsi fino a iniziare ad appassire, mentre l’altra è durata solo il tempo di Amok e questo ep Love & Death. Ogni giorno io ringrazio Odino, dio degli impiccati, per i dischi con Ville Laihiala; ma contestualmente avanzo anche la piccola osservazione che almeno un altro paio di dischi con Taneli Jarva, su questo stile, sarebbero stati molto graditi. Odino non risponde, e anche se rispondesse non cambierebbe nulla: il rimpianto rimarrà.
NIGHTFALL – Athenian Echoes
Ciccio Russo: Tra i cinque o sei album più rappresentativi della scena estrema greca, Athenian Echoes è il picco assoluto della carriera dei Nightfall, che si erano da poco lasciati alle spalle le asperità death metal degli esordi e già con il disco successivo cederanno al trend goticone paraculo dell’epoca, con risultati non proprio memorabili. Stilisticamente assai diverso dai concittadini Necromantia e Rotting Christ, il gruppo di Efthimis Karadimas condivideva con loro il pregio di tutte le grandi band nate sulle sponde dell’Egeo: l’elaborazione di un suono originalissimo e privo di pietre di paragone plausibili. Credo che dalla patria degli Olimpi non sia mai uscito un disco heavy metal in grado di rendere tributo alle suggestioni ancestrali della millenaria cultura d’Ellade meglio di Athenian Echoes, con le sue atmosfere torride ed epiche. Tra il bellicoso assalto in doppia cassa di Aye azure e le sensuali divagazioni folk di Ishtar, spicca la deliziosa My red, red moon, gotico gioiellino anticipatore della, per molti versi sciagurata, svolta che verrà.
BLUR – The Great Escape
Trainspotting: I Blur esistevano già da un po’ e avevano già iniziato una precisa evoluzione che poi li porterà, purtroppo, all’omonimo e alla successiva pappetta per gente con gli occhiali. The Great Escape è il quarto disco, viene dopo il meraviglioso Parklife e appena prima di Blur, che imbroccherà la strada sperimentale; eppure è un balzo indietro alle atmosfere del debutto e forse ancora prima. Sembra la colonna sonora di quattro bulletti dei quartieri alti, con l’uniforme del collegio e il sorrisino del cazzo fatto apposta per provocare. Ma comunque molto, molto fighetti. La rivalità con i proletarissimi sbandati alcolizzati di Manchester è azzeccatissima, da questo punto di vista. C’è qualche filler, ma nel complesso è ancora un’ottima colonna sonora per le scampagnate.
CATHEDRAL – The Carnival Bizarre
Stefano Greco: A memoria non ricordo altre band che negli anni ’90 suonassero come i Cathedral, praticamente i soli a riprendere il dogma iommiano e a riproporlo intatto. Questo loro essere completamente avulsi da qualsiasi contesto li rendeva unici e io ne adoravo qualsiasi aspetto: dai titoli sbroccatissimi che sembravano sempre usciti da una qualche versione alternativa di Symptom Of The Universe all’artwork stupefacente di ogni loro uscita (ai miei primordi sull’internets ho cercato in più occasioni di mettermi in contatto con Patchett per avere stampe, poster o qualsiasi cosa che potesse adornare a dovere la mia cameretta). The Carnival Bizarre porta un passo più avanti la svolta dinamica di The Ethereal Mirror e contiene vari tra i pezzi migliori che abbiano mai scritto e che infatti da lì in avanti divennero indispensabili nei loro live show. A distanza di decenni però mi sento di essere leggermente revisionista sulle qualità intrinseche della band. Lee Dorrian è il Ministro del Doom e non si discute, la sua importanza su questa scena è incalcolabile, prima per averla tenuta in vita e poi per averla resa florida. Se però devo essere sincero penso che nel futuro verrà ricordato maggiormente per tutto il lavoro fatto con la Rise Above come produttore, filologo e talent scout che non per quanto inciso con la sua band. La realtà che ha contribuito a creare è stata così grande da mettere in ombra anche il suo gruppo, il che poi a ben guardare è un punto d’onore. Insomma, oggi tra lui e suoi figliocci tutto sommato scelgo i secondi.