La triste storia nasce in Polonia nel 2008: una ragazza di quattordici anni era stata stuprata e non ha avuto l’accesso all’aborto in diversi ospedali a seguito delle pressioni dei gruppino-choice. Questa vicenda aveva suscitato molto clamore in Polonia ed alla fine è approdata davanti la Corte europea dei diritti dell’uomo.
La ragazza – le cui generalità non sono state rese note – essendo stata violentata aveva ottenuto un certificato di un pubblico ministero polacco che confermava che la sua gravidanza era a causa di rapporti sessuali illeciti. Questo è uno dei motivi per avere accesso all’aborto in conformità con la legge polacca: una delle più restrittive d’Europa che lo ammette solo in caso di stupro, incesto o quando la vita della madre o il feto è in pericolo.
Come risulta dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, il 9 aprile 2008 la ragazza era andata all’ospedale di Lublino chiedendo di abortire accompagnata da un suo coetaneo ma i medici le dissero che non potevano fare nulla considerata la sua minore età.
Perciò la giovane tornò con la madre e – sebbene in stato di shock a causa dello stupro – ribadì che non voleva portare a termine la gravidanza anche perché voleva proseguire con gli studi. Un medico dell’ospedale di Lublino suggerì loro di incontrare un prete cattolico ma la madre si rifiutò.
Nello stesso ospedale un secondo dottore consigliò la mamma di «far sposare la figlia». Nonostante ci fosse stato un rifiuto, la ragazza venne accompagnata da sola da un prete cattolico sebbene nessuno le avesse chiesto se fosse cattolica o se desiderasse vedere un prete.
Il prete – che aveva già ricevuto tutte le informazioni da parte dei medici – cercò di convincerla a portare a termine la gravidanza ma la giovane rispose che non poteva prendere questa decisione da sola e doveva condividere una scelta così difficile con i genitori. Perciò il prelato le chiese di dargli il suo numero di cellulare e la ragazza accettò. Sebbene la madre fosse assente e nonostante la minore età, il prete ed un dottore le fecero fermare una dichiarazione in cui l’adolescente esprimeva la volontà di portare a termine la gravidanza: lei firmò – come risulta nella sentenza della Cedu – solo perché non voleva essere sgarbata. All’arrivo della madre il dottore le disse che era una «cattiva madre» e le due lasciarono l’ospedale per cercare di ottenere un aborto in quello di Varsavia.
Il 3 giugno 2008, quando era nell’ospedale della capitale polacca, la ragazza cominciò a ricevere messaggi sul suo cellulare sia dal prete che aveva incontrato a Lublino che da vari sconosciuti attivisti anti-aborto che le scrivevano che stavano pregando per lei.
Il prelato arrivo a Varsavia il giorno dopo con un’attivista no-choice e le autorità ospedaliere permisero l’incontro con la ragazza in assenza della madre. La sera stessa una sconosciuta attivista anti-aborto entrò nella stanza in cui era ricoverata l’adolescente provocando la reazione di quest’ultima che si lamentò che le autorità dell’ospedale permettevano a chiunque di approcciarla.
Il 5 giugno la coppia «sentendosi manipolata e indifesa» lasciò l’ospedale di Varsavia in quanto i medici si rifiutavano di praticare l’aborto per il troppo clamore suscitato dal caso.
All’uscita dell’ospedale la ragazza e sua madre vennero aggredite da due attivisti no-choiceche le impedirono di salire su un taxi e chiamarono la polizia che le portò in un commissariato: da qui cominciò il calvario.
Come risulta dalla sentenza nonostante la ragazza fosse incinta ed avesse subito uno stupro non le venne offerto del cibo, le venne sequestrato il cellulare, fu separata dalla madre e messa in una stanza chiusa a chiave.
Il solito prete venne a trovarla e le disse che avrebbe chiesto all’autorità giudiziaria di metterla in una casa famiglia per ragazze madri gestita dalla Chiesa cattolica.
Successivamente la ragazza parlò con uno psicologo ed in questo modo l’adolescente sintetizzò l’incontro: «Gli ho raccontato di nuovo tutta la vicenda e mi hanno detto che sarebbe stato meglio per me portare a termine la gravidanza. Non hanno chiesto la mia opinione e sono stata in una camera chiusa per tutto il giorno. Mi sentivo come se fossi in un riformatorio, avevo sbarre alla finestra ed una porta chiusa a chiave, non è stato molto piacevole».
Dopo questo interrogatorio la polizia decise di mettere l’adolescente in un centro per giovani separandola completamente dalla madre.
Alla fine l’aborto è stato praticato nell’ospedale di Danzica dopo l’intervento del ministero della Salute.
La Corte europea ha sentenziato che c’erano state diverse violazioni dei diritti della ragazza (tra cui quello alla privacy) e di sua madre obbligando la Polonia a pagare la somma di 61.000 euro.
Nonostante Avvenire scriva che «la giovane sembrava intenzionata a tenere il bambino (mentre, ndr) la mamma la spingeva ad abortire» dalla testimonianza della ragazza risulta che fosse stata sua intenzione sin dall’inizio di non proseguire la gravidanza: al contrario pressioni dirette e violente sono state fatte da chi non aveva neanche nessun diritto di parlare con la giovane come i vari attivisti contro l’aborto.
Inoltre se, come scrive l’organo della Cei, «la giovane era stata allontanata dalla madre, in modo che potesse decidere senza subire pressioni», c’è da pensare che una ragazza (o meglio bambina) di quattordici anni che ha subito uno stupro abbia tutto il diritto di poter prendere una decisione così importante con la sua famiglia. La pressione di un prete cattolico e di sconosciuti attivisti no-choice è forse più importante dell’appoggio che può dare una madre?
Come mai la Chiesa – che sempre sostiene l’importanza dell’unità familiare – ha agito attivamente in questo caso per disgregare la famiglia separando una madre ed una figlia proprio nel momento in cui quest’ultima aveva proprio bisogno dell’aiuto che solo una mamma può dare?