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Back In Town. Bovisa City Milano

Creato il 12 agosto 2010 da Vfabris @FabrizioLorusso


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di Fabrizio Lorusso

 

Oggi niente America Latina. Le luci dell’Osservatorio americano esaltano uno sguardo straniero e un po’ stranito su un barrio nostrano, asfalto e cemento del bel paese. Un cellulare in mano e 37 gradi Celsius nell’aria umida del primo pomeriggio milanese, quando tutto è chiuso, anche il cervello, e nessuno penserebbe mai di farsi una passeggiata di (mala)salute improvvisata. Auto parcheggiate, silenzio stazionario, afa e vino del pranzo che risale.
Questo è un foto post con didascalie febbrili che resterà come testimonianza del breve ritorno in patria dell’autore, esiliato volontario a Città del Messico da 8 anni e 1/2, felliniani ma anche abbastanza fantozziani, dipende sempre dal punto di vista.
Quest’anno saranno 49 i giorni passati in Italia, per la precisione nel caro e vecchio focolare di Piazza Prealpi e vie limitrofe, un’enclave incastonata come una perla-barrio tra le mitiche zone Bovisa, Quarto Oggiaro e Villapizzone a Milano, periferia ovest dal retrogusto post industriale.

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Questa fu una terra promessa per l’immigrazione dal nostro meridione a partire dagli anni quaranta del secolo scorso e s’è oggi trasformata in una zona multicolore e multilingue, con i suoi pregi e le sue contraddizioni, grazie alle folte comunità equatoriane, peruviane, cinesi, albanesi, marocchine, rumene, pachistane, cingalesi, senegalesi e mi scuso se ne dimentico alcune! Presenti.

Ecco la fermata Villapizzone del passante ferroviario, un mezzo che, quando nacque, venne spacciato per una nuovissima metropolitana sotterranea “classica”, la famosa Linea 4 del metro di Milano, ma è più simile a un treno che passa ogni tanto, gli è simile nel bene e nel male.

I gradini spuntano in mezzo al nulla nei pressi della sede Bovisa del Politecnico, dove fino a 10 anni fa regnavano solo baracconi e industrie dismesse e ci si andava per sfidare il destino: probabilità di rapina oltre il 70%, sequestro fifty-fifty, caduta in un tombino scoperchiato, 30%, cedimento strutturale di un edificio antistante, 55%, pestaggio o rissa, un bel 40%; essere investiti da guidatori ubriachi col foglio rosa o da macchine della scuola guida, 90%. Siamo qui, ancora. Ce l’abbiamo fatta!

Tutte le stime delle percentuali sono dell’autore su dati comuni.

Un cunicolo buio, orripilante e masochisticamente affascinante s’interrava sotto i binari per una ventina di metri eterni e permetteva l’accesso al quartiere abbandonato dopo la crisi del fordismo e della grande fabbrica, stile Seveso o Sesto San Giovanni (Stalingrado d’Italia). Di recente è stato coperto e sostituito da degli eleganti sottopassaggi e ponti pedonali.

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Fontana pubblica con acqua pubblica sgorgante al sapore di pesce amaro, detta Drago Verde, vicino a cestino, anch’esso verde ma quasi fosforescente, stracolmo di putridume e sovrastato dai proibizioni statali e comunali su cartello.

Qui s’appostava sempre la bancarella del pescivendolo nei giorni di mercato, il lunedì e il giovedì, dunque l’acqua della fontanella, sebbene fosse pulita e potabile, lasciava un retrogusto di orata e polipo all’aglio e prezzemolo che penetrava dalle narici fino agli angoli più reconditi dello stomaco assetato.

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Oggigiorno la celebre gang latina dei Latin Kings (il nome non inganna) sovrappongono tag su tag a quelle dei writer più storici miscelando hip-hop, identità latina o quel che ne rimane e disagio.
Messaggio murale: minaccia comprensibilissima anche a chi non bazzica lo spagnolo. Siete morti! Están muertos. Voi che leggete il muro.

Un po’ come faceva il prete che inveiva contro Troisi in “Non ci resta che piangere”, quando gridava “ricordati che devi morire” e Troisi diceva “sì, si, mo me lo segno”. Segnatevelo anche voi sul muro sotto casa (nel condominio del vicino).

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Ormai in zona si vende di tutto, anche i Marziani, come da annuncio affisso! I bolos so più o meno cosa cosa sono, a un euro è un buon affare per quel tipo di pane soffice e rotondo. Ok.
Ma i Marcianos in vendita da questa signora non so proprio cosa siano. Lo spagnolo messicano non mi aiuta e nessuno m’informa.

Da domani, domenica 4 luglio (quando scattai la foto), forse lo sapremo.

E poi, scherzi a parte, consiglio agli abitanti della mia zona di cominciare a studiare lo spagnolo nella variante andina (lo dico come osservatore e insegnante interessato a trovare un lavoro nella didattica dello spagnolo a italiani prima o poi, chissà).

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Alla fine di Via Negrotto c’è sempre stato quello che chiamavamo “l’accampamento degli zingari”, un campo d’accoglienza o di segregazione, a seconda, per la popolazione rom che era l’angolo più precario e temuto dalla popolazione del quartiere.

Vietato passare, vietato spiare, vietato giocare da quelle parti.
E’, però, permesso disfarsi delle televisioni offrendole in dono al passante, ce ne sono anche di vari colori e dimensioni, per tutti i gusti e tutti i giusti insomma.

Catodiche liberazioni. Televisive aberrazioni sul marciapiede.

In effetti la convivenza è sempre stata difficile. La loro fama è sempre stata pessima, a torto e, un po’, anche a ragione, non discuto. Basta che non prevalgano i luoghi comuni.

Mentre faccio le foto una famiglia di rom, stipata in una vecchia ford escort che procede a 5km/ora, mi squadrano da capo a piedi come fossi uno sbirro attrezzatto per lo sgombero o un esattore del racket, fenomeno molto comune qui.

Da piccoli sapevamo di default che tutti i negozianti pagavano il pizzo, ci mancava che facessero pagare anche noi “innocenti” studentelli per poter andare a scuola con la cartella superiore ai 15 kg, come al check in dell’areoporto.

Azzardo un cenno con la mano per salutarli e un mezzo sorriso per rassicurarli del fatto che non cercherò di violare il loro spazio vitale.
Fatto, son tranquilli, ma come spesso succede l’impressione è diversa. E sbagliamo. Preconcetti.

Rispetto ad alcuni anni fa la strada mi sembra di lusso, per lo meno non vivono più nelle tende e nelle roulotte ma nei prefabbricati e l’asfalto ha coperto una specie di mulattiera antica.
Continuo con le foto e poi sciacquo via.

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Nell’anno del mondiale in Sudafrica, i colori di quel continente, presente più che mai nelle città della penisola, splendono anche sui pali della luce per la festa africana ispirata all’evento sportivo dell’anno e chiamata “Le Grande Balun”, echi francesi che assomigliano più al dialetto milanese.

Credo che grazie (o a causa?) al francese o al creolo parlato in molti paesi dell’Africa come prima o seconda lingua, moltissimi migranti hanno in realtà meno problemi a comunicare con chi parla il dialetto milanese o con un famigerato padano Doc di quanto possiamo immaginarci.

Passerebbero tranquillamente anche i test linguistici che dovremmo, invece, imporre a buona parte della nostra classe politica padana e prealpina. Ma non facciamo populismo anche qui, por favor.

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In un quartiere dove il graffito e la tag tirano, giustamente anche i messaggi sociali passano sopra e attraverso i muri per giungere alle orecchie della moltitudine silenziosa pronta alla lettura degli urbani ornamenti.

Le saracinesce chiuse ci parlano da vicino e c’intristiscono da lontano, è il ricordo del rifiuto, la fine del consumismo o semplicemente l’ora sbagliata. Alla una e mezza non si apre.

No al razzismo, e sì all’Esperanto, la lingua universale creata a tavolino e pensata come strumento di comunicazione globale ai tempi in cui di globalizzazione non si parlava ancora.

Che poi non sia servito a molto nell’umana storia (ma parlo da miscrednte), siamo d’accordo, ma in fondo il tentativo fu fatto e questa zona ne è testimone grazie al suo centro esperantista ritratto orgogliosamente nella foto, sempre con saracinesca chiusa ma animo aperto.
La lingua internazionale, altro che american english, español o mandarino…

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Oltre al centro per la diffusione dell’Esperanto abbiamo sulla stessa strada, Jacopino St. e Bramantino St., una chiesa evangelica e una macelleria equina profumatissime.

Accanto ad esse un’altra saracinesca chiusa, ma ripeto, spesso si deve solo all’ora, al giorno, al momento insomma, non alla mancanza di buona volontà.

Il vecchio circolo “E. Colombani” del Partito Comunista Italiano, oggi Rifondazione, e la sua insegna esistono e resistono ancora alla ruggine del tempo e delle finte seconde e terze repubbliche che ci passano davanti. Todo respeto.
Ma a volte anche no, sono posmoderno, non credo più.

A pochi metri da qui, proprio nel primo pomeriggio di oltre vent’anni fa, assistemmo alla prima rapina, o meglio uno furto con scasso, della nostra vita.

Io e Frankino, oggi affermato house-tech DJ, uscivamo dalla scuola media C. Colombo e con fare scoglionato ci dirigevamo verso un pasto sicuro nelle nostre rispettive dimore quando, ormai a pochi metri da casa, un figuro (l’aggettivo losco non lo volevo scrivere, è scontato) svuotava un negozio di pellicce del suo contenuto di scorze di animali morti e peli incurante dell’allarme sonante.

Niente di che, abbiamo preso la targa per sentirci un po’ eroi ma siccome il negozio era una copertura per qualcuno, non so chi, non ha mai riaperto comunque. Nessuno ci teneva più di tanto. Meglio un bel salumiere, per esempio. E infatti c’è.

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Chiesa e oratorio erano luoghi ambigui. Rifugi delle relazioni sociali per pargoli e adolescenti in un quartiere “movimentato”, tane e nascondigli per i morigerati, spazi aperti per fare sport e indottrinarsi, erano anche un’ottima palestra per menarsi con i coetanei, imparare le prime bestemmie, prendere i primi due di picche prima dei 15 anni e apprendere l’arte amorosa (solo baci e limonate per gli sfortunati, qualcosa di più se avevi il motorino, ancora di più se eri un ripetente di 20 anni in mezzo alle liceali del biennio e stop) qualche tempo dopo.
Scene di adolescenza imberbe.
Mi spiace, la realtà è dura.

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Paradossalmente l’oratorio a volte era davvero il miglior posto dove andare, stare, parlare, sparlare e conoscere una fetta di mondo, ma due o tre volte al mese bisognava prepararsi all’assedio delle bande organizzate di sbandati affamati di radioline, braccialetti, scudi (5000 lire), anelli e botte giusto all’uscita della Chiesa, quando faceva buio, oppure bisognava presenziare ai tentativi di spaccio dei fratelli maggiori di alcuni tuoi compagni di gioco o al noto lancio della siringa sul ciglio della strada.

I fratelli maggiori, tra l’altro, erano sempre pronti a difendere il loro consanguineo minore e minorato se non gli concedevi di fare alcuni gol (io giocavo quasi sempre in porta o come terzino, quindi lo so).
E a volte il gol non lo meritavano davvero. Perciò niente.
Non che l’ambiente oratoriale si riducesse del tutto e solamente a questo, ma così era e così sia.

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Davanti alla Chiesa del barrio, a meno di trenta metri di affanno, c’è da qualche anno un apprezzato distributore di preservativi, affianco alla farmacia. Merita la foto, coloratissimo, richiama l’avventore e l’avventuriero all’ordine e al progresso civile. Oratorio sì, ma poi usa anche questo. Bien!

L’amore ai tempi del muralismo messicano era fatto di trasgressioni e passioni inconfessabili, Frida e Diego Rivera, nazionalisti amati dal popolo e comunisti attivi erano scrutati dall’internazionalista globale Leon Trotsky, poi sedotto a sua volta dalla stessa Frida prima di essere raggiunto dagli sgherri del sadico Stalin, messicanissimo per il suo look baffuto ma poco avvezzo alla negoziazione e al sorriso.

Questo cuore rosa, invece, è patrimonio culturale dell’umanità secondo l’UNESCO e la CIA, ed è stato collocato sulla parete laterale di un condominio per bene, anche se modesto. Possibile.
Allegro. Però sprizza anatemi melensi e frasi subliminali “stile Bacio Perugina” da tutti i suoi milioni di pixel. Al gusto.


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