Bahrain :::: Ali Reza Jalali :::: 2 maggio, 2012 ::::
Le rivolte del Bahrain, iniziate nel febbraio del 2011, sono trattate dai media in modo diverso che non quelle di altri Paesi come la Siria. Perché questa diversa impostazione? Cosa di diverso ha questo piccolo Paese del Golfo Persico rispetto ad altre aree del mondo arabo?
L’alleanza militare della Penisola araba con gli USA, il petrolio, la simpatia dell’opposizione del Bahrain nei confronti del temuto Iran, sono alcuni elementi che aiutano a capire cosa sta accadendo nella regione più “calda” del mondo.
In tutti questi mesi, l’attenzione dei principali media occidentali (lo stesso dicasi per quelli arabi), si è concentrata sulla cosiddetta “Primavera araba”. Dalla Tunisia all’Egitto, dalla Libia alla Siria, passando per lo Yemen, tutte le rivolte sono state più o meno pubblicizzate, per di più in maniera unilaterale. Ma per quanto riguarda il Bahrein, i media hanno cercato di “rigirare la frittata”, presentando la rivoluzione popolare come una rivolta settaria della maggioranza sciita contro la minoranza sunnita al potere (la dinastia Al Khalifa). E anche quando si è voluto proporre un’analisi un po’ più approfondita, si è tirato in ballo un’ipotetica ingerenza iraniana negli affari interni dell’arcipelago del Bahrain.
Più di un anno di rivolte
Tutto ha inizio nel febbraio del 2011, con le prime manifestazioni pacifiche di gente disarmata che chiedeva semplicemente un sistema più democratico in cui il voto dei cittadini avesse un valore, visto che l’attuale regime si basa su una monarchia costituzionale di facciata, nella quale il parlamento è in buona parte nominato dal Re e i gruppi politici maggioritari nel Paese di fatto non hanno la possibilità di ottenere la maggioranza dei seggi parlamentari. I manifestanti iniziarono a riunirsi in modo massiccio nella centrale “Meidan al-lo’lo’” (piazza della Perla), chiedendo inizialmente riforme democratiche, ma successivamente, vista la brutale repressione, gli slogan popolari arrivarono fino alla richiesta della fine del regime (1). Nonostante le manifestazioni fossero pacifiche, la repressione del regime fu violenta. Non solo, ma il Paese venne invaso militarmente dall’Arabia Saudita, su implicito assenso del governo americano, in quanto si disse che le rivolte erano fomentate da nemici esterni (cioè l’Iran).
Il governo del Bahrain aveva infatti chiamato in causa “lo Scudo della penisola”, una delle tante organizzazioni sovranazionali che legano i Paesi della Penisola araba, questa però di carattere militare, che prevede nella sua Carta l’intervento dei Paesi della Penisola in soccorso di un Paese membro sotto attacco militare. La cosa interessante è che i regimi autoritari e reazionari aderenti a questa ‘NATO del mondo arabo’, Paesi in cui una donna non può guidare una macchina (vedi l’Arabia Saudita), hanno considerato delle normali manifestazioni pacifiche di civili inermi come un attacco “militare portato da un Paese straniero”; la cosa più grave è che le organizzazioni per i diritti umani, i media filantropici occidentali, sempre alla ricerca di qualche “Sakineh” in giro per il mondo da salvare, non hanno detto niente; per non parlare del Consiglio di sicurezza dell’ONU, sempre all’avanguardia per condannare questo o quel dittatore (a patto che sia considerato nemico dell’Occidente libero), ma che in questo caso non ha mosso un dito.
Di recente si è tornati a parlare delle rivolte, ma per il semplice fatto che in Bahrain c’era il GP di Formula Uno e i media sono stati costretti a dire qualcosa dei soprusi subiti un giorno sì e l’altro pure dagli abitanti di questo Regno, la cui rivoluzione pacifica è stata dimenticata.
Perché nessuno parla del Bahrain?
Ora dobbiamo capire il motivo o i motivi per cui nessuno vuole affrontare seriamente questo argomento. Alcuni potrebbero pensare che, vista l’irrisoria estensione territoriale di questo arcipelago del Golfo Persico, il ruolo geopolitico del Bahrain non è importante. O il fatto che il Bahrain abbia solo un milione di abitanti lo renda un Paese marginale nei rapporti internazionali (2). Ma queste evidentemente non sono argomentazioni serie. Un’argomentazione un po’ più ragionevole potrebbe essere quella riguardante le rivolte stesse, considerate non molto partecipate dalla popolazione, che in realtà sosterrebbe il regime, sia nella componente sunnita che in quella sciita. Però verrebbe da ribattere che se non c’è una situazione così drammatica, che bisogno c’era dell’intervento militare dell’Arabia Saudita? Questa ingerenza dimostra come la dinastia Al Khalifa sia ancora rimasta al potere solo grazie all’uso della violenza e all’intervento di un esercito straniero. Allora quali sono i veri motivi di questa omertà internazionale?
1- Il Bahrain si trova nel cuore del Golfo Persico, una delle regioni più importanti del mondo, se non la più importante in assoluto per i rifornimenti energetici, sia di petrolio sia di gas naturale, dove un cambio di regime in uno qualsiasi dei Paesi della zona porterebbe all’instabilità dei prezzi sui mercati internazionali, danneggiando molto i Paesi importatori, soprattutto quelli coinvolti maggiormente nella crisi economica, ovvero le nazioni industrializzate.
2- Il Bahrain ospita una delle più importanti basi della Marina militare americana nella regione (3) e un cambio di regime metterebbe in pericolo la presenza militare nordamericana nel Paese, portaerei naturale nel Golfo persico, in funzione del principale nemico delle politiche espansioniste degli USA, ovvero l’Iran.
3- Gli USA sono spaventati dal fatto che la caduta del Bahrain possa essere l’anticamera della caduta degli Al Sa‘ud, vera questione centrale della politica mediorientale americana, insieme alla questione della Palestina occupata.
4- Ultimo, ma non per questo meno importante, l’opposizione al regime degli Al Khalifa ha un’impronta ideologica ben precisa e guarda con forte simpatia all’Iran, mentre gli USA, l’Arabia Saudita e gli altri “alleati” non vogliono un altro Iraq sotto il naso (4).
Questi sembrano essere tra i principali motivi per cui è bene censurare la rivoluzione del Bahrain. La caduta della dinastia degli Al Khalifa determinerebbe rivolgimenti geopolitici molto importanti: aumenterebbe la potenza di Tehran a scapito degli USA, infliggendo un’altra sconfitta al governo di Washington dopo quella subita in Iraq, e costringerebbe ad una battuta d’arresto il tentativo di rovesciare Assad in Siria, nel quale vediamo impegnate – tra gli altri – le stesse monarchie del Golfo Persico.
NOTE:
(1) Il monumento nella centrale piazza di Manama, capitale del Bahrain, rappresentante una gigantesca perla, fu distrutta dalle autorità per “cancellare” qualsiasi simbolo della rivolta. Da allora i rivoluzionari hanno ribattezzato la piazza “Maydân al-shuhadâ’” (Piazza dei martiri).
(2) Una stima delle Nazioni Unite del 2010 parla di 1.299.172 abitanti.
(3) Per la precisione si trova schierata in Bahrain la V Flotta della Marina americana.
(4) Parafrasando Julius Evola verrebbe da dire che gli USA in Bahrain fanno più fatica a ‘cavalcare la tigre’ rivoluzionaria che non in altri Paesi arabi.