SOLDATINI DI PIOMBO, BAMBINI EDUCATI AD UCCIDERE
Intervista al giornalista Giuseppe Carrisi
Uccidono per sopravvivere, guadagnarsi il diritto alla vita, crescere.
Sono orfani, bambini di strada, abbandonati, privi di speranza.
Rappresentano forze fresche, giovani, costano poco, non chiedono di essere pagati, sono facilmente controllabili e, terrorizzati con minacce e soprusi, possono giungere a commettere i crimini più atroci.
Sono bambini soldato, bambine costrette a diventare schiave sessuali. Vittime di un meccanismo troppo grande per riuscire ad essere contrastato.
Mezzo milione di minori è impiegato negli eserciti irregolari e nei gruppi armati di opposizione in 85 Paesi.
Più di 250 mila di questi prendono parte ai combattimenti in 35 Paesi e ben 120 mila solo nel continente africano.
Si tratta di piccoli combattenti arruolati sia da eserciti governativi che da gruppi armati di opposizione ai governi, “ribelli”. Vengono prelevati all’uscita di scuola, nelle loro case, alle fermate degli autobus e nei luoghi frequentati dai giovani, è sufficiente una scusa qualsiasi per essere portati via, il semplice controllo del documento d’identità può diventare la ragione per essere costretti a scegliere tra lo scontare una lunga pena in carcere o entrare a far parte dell’esercito. Ormai da moltissimi anni questo fenomeno rappresenta una delle piaghe più profonde e difficili da sanare, con lo scorrere del tempo infatti il problema si propone sempre più massicciamente. La differente natura delle guerre che da scontri tra Stati si sono trasformate in conflitti etnici, religiosi, sociali, nazionalistici ha fatto in modo che i combattenti non siano più eserciti regolari ma gruppi armati indistintamente composti da militari e civili, bambini e bambine. Sono conflitti che dietro la causa religiosa spesso nascondono dispute legate al controllo e allo sfruttamento delle materie prime, battaglie di sangue che si spengono in un Paese per riaccendersi improvvisamente in un altro, senza soluzione di continuità. Solo in Africa vi sono attualmente una decina circa di guerre civili che coinvolgono bande di ribelli e gruppi paramilitari. Ad aggravare oltremodo la situazione è la vasta distribuzione delle cosiddette ‘armi leggere’: armi non molto sofisticate dal punto di vista tecnologico (fucili, pistole, mitra, lanciagranate portatili, mine antipersona) e quindi producibili a basso costo ed utilizzabili anche da un singolo individuo. Un addestramento mirato è in grado di rendere abile ad utilizzare queste armi, per esempio un Kalashnikov o un ‘M16’, anche un bambino dell’età di 8 o 9 anni.
Intervista a Giuseppe Carrisi, giornalista di Rai International, reporter da numerose zone di guerra
Qual è il Paese che ha il peggior primato per l’uso dei bambini soldato?
“Il Paese che utilizza maggiormente i bambini soldato è il Myanmar, l’ex Birmania, guidato da una giunta di militari. Dai dati di Human Rights Watch, sarebbero 70 mila i minori arruolati dalle truppe governative (il 20 per cento dei 350 mila effettivi) che dal 1948, anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna, combattono contro i movimenti separatisti di diverse etnie. Tra i principali vi sono l’Esercito dello Stato di Shan, il Partito Progressista Nazionale Karenni, l’Unione Nazionale Karen e l’Esercito dello Stato Unito di Wa: secondo le stime, in questi gruppi vi sarebbero tra i 6 mila e i 7 mila bambini. A finire nelle mani dei soldati sono soprattutto i ragazzi di 13 e 14 anni. Nel momento in cui sono formalmente arruolati, nelle loro schede alla voce età, l’ufficiale responsabile scrive sistematicamente 18 anni, anche per quelli di 10 o 11. Un altro modo per reclutare i bambini è il programma ‘Ye Nyut’, ‘rampolli valorosi’. Si tratta di campi militari che si occupano dei bambini e della loro istruzione. In tutto il Myanmar ne esistono tra i 50 e i 100, ciascuno dei quali può accogliere fino a 200 mila bambini. Quella del Myanmar è una guerra fratricida, con un bilancio di vittime imprecisato a causa del divieto di accesso alle zone del conflitto, le cosiddette ‘black areas’ dove, in base ai rapporti di Human Rights Watch, i bambini anche di 11 anni partecipano ai combattimenti contro le popolazioni civili. La più famigerata di queste ‘aree nere’ è la regione a ridosso dei confini di Myanmar, Thailandia e Laos, nota come il ‘Triangolo d’oro’, crocevia del traffico di droga e nascondiglio sicuro dei signori della guerra. Da quella zona proviene il 22 per cento della coltivazione di oppio del Myanmar, secondo produttore al mondo della sostanza, dopo l’Afghanistan”.
Qual è la situazione di donne e bambine all’interno di queste realtà?
“Secondo i dati, il 40 per cento dei 300 mila bambini soldato sono di sesso femminile. Le bambine oltre a combattere, hanno anche altri compiti: si occupano della sussistenza dei militari, lavorano come portatrici, raccolgono informazioni, fanno da corrieri ma, soprattutto, vengono usate come ‘schiave sessuali’ e date in mogli ai comandanti. C’è, poi, un’altra piaga che colpisce queste innocenti: quella della prostituzione. Il dilagare della povertà, la disgregazione delle famiglie e delle comunità e l’insicurezza, spesso spingono le adolescenti a vendere il proprio corpo, in cambio di cibo o protezione. Una ricerca condotta dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e dalla sezione inglese di Save the Children, ha riportato il caso di una bambina liberiana che si è prostituita per l’equivalente di 10 centesimi di dollaro, una cifra con la quale avrebbe potuto comprare al massimo una manciata di noccioline. Per molto tempo quella delle bambine-soldato è stata una questione sottovalutata. E’ stato sottostimato il numero delle giovani coinvolte nei conflitti; le bambine arruolate negli eserciti e nei gruppi armati non sono considerate dei ‘veri’ soldati; molte di queste bambine sono erroneamente classificate come donne perché al momento del disarmo hanno più di 17 anni e, spesso, anche dei figli; si è sempre posta una maggiore attenzione sui maschi armati per attirarli nelle zone di smobilitazione. Inoltre, in passato, la violenza e lo stupro erano considerati come una conseguenza tragica ma inevitabile dei conflitti e, quindi, non punibili, a differenza della tortura e dell’omicidio annoverati tra i crimini di guerra. Ciò non solo ha avuto l’effetto di rendere ‘invisibili’ queste bambine, ma ha anche prodotto una conseguenza ancora più aberrante: una volta terminati i conflitti, rimangono escluse dai programmi di smobilitazione e reintegrazione. Soltanto in anni recenti si è cominciata a prestare maggiore attenzione alla condizione delle donne nei conflitti armati, è infatti nel 2002 la Corte penale internazionale, ha incluso i reati di violenza sessuale (stupro, schiavitù sessuale, gravidanza forzata, induzione alla prostituzione) tra i crimini contro l’umanità. Nel 2004, inoltre, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha adottato una risoluzione, la 1325, in cui si afferma ‘il ruolo importante che svolgono le donne nella prevenzione e nella soluzione dei conflitti e nel consolidamento della pace’.”
L’Occidente ed in particolare il nostro Paese quali responsabilità ha nei confronti di questi bambini/e?
“La maggior parte delle guerre ha come obiettivo il controllo del territorio, che consente lo sfruttamento delle materie prime per proprio tornaconto o per assecondare gli interessi di potenze straniere. Una realtà che in Africa, in particolare, diventa un paradosso: un continente che non ha eguali per ricchezza del sottosuolo, proprio per questa sua ricchezza ha pagato un prezzo terribile. Si tratti di petrolio, diamanti, oro, legname pregiato o minerali preziosi (coltan, cassiterite, bauxite, rutilio, uranio), sono diventati sinonimo di guerre, morte e distruzione. Molti conflitti africani sono figli della volontà di controllare questo serbatoio che interessa potenze industriali e lobbies internazionali. Non solo occidentali, ma anche delle nuove economie emergenti, Cina in testa. Un caso emblematico è quello della Repubblica Democratica del Congo, dilaniata da una guerra combattuta da almeno cinque eserciti di governi stranieri (Angola, Namibia, Zimbabwe, Uganda e Ruanda) e da diverse fazioni armate, tanto da far parlare di ‘prima guerra mondiale africana’. In un rapporto delle Nazioni Unite si legge che il conflitto si è incentrato principalmente sull’accesso, il controllo e il commercio di cinque risorse minerali fondamentali: coltan, diamanti, rame, cobalto e oro. Queste risorse avrebbero potuto garantire al Congo un benessere maggiore di quello dei Paesi produttori di petrolio e, invece, hanno portato morte e distruzione: le stime parlano di circa 5 milioni di vittime, la maggior parte bambini, e di 3 milioni di sfollati. In Angola, i giacimenti di diamanti e il petrolio sono stati la causa della trentennale guerra che ha visto contrapposti l’esercito governativo e il gruppo politico armato denominato Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale dell’Angola. Il conflitto ha provocato centinaia di migliaia di vittime e oltre 1 milione di profughi”.
Un ex bambino soldato può riuscire a vivere una vita degna di essere chiamata tale? Quali sono i processi di riabilitazione?
“Questo è un aspetto molto delicato della complessa vicenda dei bambini-soldato. Un adolescente che ha commesso e visto i crimini e le atrocità della guerra, difficilmente riuscirà a cancellare quei momenti dalla sua mente. Ma è importante aiutarlo a reinserirsi nella società civile e a ricostruire una vita per quanto possibile normale. In questo senso, è molto importante il lavoro che svolgono le organizzazioni non governative e di volontariato che operano nei Paesi in guerra. La loro attività prevede, innanzitutto, l’accoglienza dei bambini liberati dai gruppi armati: vengono registrati in appositi centri e sottoposti ad esami medici e psicologici. Quindi, ricevono gli aiuti di prima necessità. L’aspetto su cui si punta maggiormente è quello psicologico: bambini e bambine, infatti, arrivano in questi centri con gravissimi traumi. L’obiettivo principale è aiutarli ad uscire dalla condizione di isolamento, dal senso di vergogna o di colpa che si portano dietro. La fase successiva è quella di cercare di ricongiungere i ragazzi alle loro famiglie. Un percorso difficile e pieno di ostacoli. Non sempre, infatti, è facile rintracciare i nuclei familiari, ma anche quando questo succede, può verificarsi che il ricongiungimento non sia possibile, in quanto i familiari o l’intera comunità si rifiuta di accogliere un bambino che ha imparato ad uccidere, a distruggere villaggi a mutilare la gente, anche se costretto con la forza. Non ultimo il problema economico: nella maggior parte dei casi, infatti, le famiglie con la guerra hanno perso casa e lavoro e non hanno più i mezzi di sostentamento. Per far fronte a questo problema, le organizzazioni non governative prevedono due tipi di iniziative per questi ragazzi: l’insegnamento di un mestiere e l’avvio ad attività commerciali.
©Alessia Arcolaci
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