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“Bambino per sempre” di Cristóvão Tezza (Sperling & Kupfer, trad. di M. Baiocchi)
Il mercato editoriale italiano, checché se ne dica, è un mercato ricco. A volte, come ogni famiglia ricca che si rispetti, dovrebbe solo limitare gli sperperi. Dal 2008 è entrato “in famiglia” un romanzo tenuto praticamente sotto silenzio, a eccezione, da quel che si evince dal documentato sito dell’autore (http://www.cristovaotezza.com.br/index.htm), di un bell’articolo di Sebastiano Triulzi sul supplemento culturale del Manifesto. Ma un libro come questo corre un rischio peggiore del silenzio: quello di passare per il racconto compassionevole di un caso patologico. Cosa che forse gli procurerà una nicchia di mercato, ma non gli farà giustizia in quanto pezzo di letteratura. “Bambino per sempre”, del brasiliano Cristóvão Tezza, parla infatti di un tema delicato: l’handicap. “Una storia vera”, sottolinea l’editore italiano, probabilmente in cerca delle nicchie di cui sopra. Vi si narra la nascita di un figlio con sindrome di Down e, fin qui, si è detto tutto e niente, se non si aggiunge che Tezza è uno scrittore di razza e che “il figlio eterno” (così il titolo originale) è una bellissima riflessione sulla paternità che va ben oltre il patologico/patetico.
La storia comincia quando il figlio è ancora soltanto un’idea, una macchia scura sulla lastra dell’ecografia. Privo di sesso, puro essere. Il padre è un intellettuale disoccupato che conserva nel cassetto scritti e sogni di gloria. La terza persona dà la giusta distanza ironica a questo ritratto di artista da giovane che vede nel figlio un ingrediente in più per una biografia ancora tutta da scrivere, così come quasi tutti da scrivere sono i libri che progetta. Il dramma inatteso del figlio disabile darà uno spessore diverso alla paternità in quanto risorsa letteraria.
La narrazione non abbandona mai l’altalena tra i ricordi di un passato libero e ribelle (viaggi da globe-trotter, studi in Europa, esperienze teatrali…) e un presente inatteso che segna chiaramente la linea di confine col passato, anche prossimo, ma inesorabilmente passato. È l’“avanti Cristo” e il “dopo Cristo” della cronistoria personale di ciascun genitore. Non sarà casuale che la nostra cultura faccia il calcolo delle proprie rughe a partire da una nascita illustre, al contrario di ebrei e musulmani che vedono in altre date i punti di svolta.
Anche per Tezza il figlio è motivo di riflessione, fra le tante, sul Tempo. Di fronte a un essere a cui manca proprio tale cognizione, votato ogni giorno alla maledizione di un eterno ritorno più vicino a Peter Pan che a Nietzsche, il padre si ritrova alle prese con la scelta esistenziale. Niente di tutto ciò che non è stato sarebbe potuto essere, dirà a un certo punto. La scelta è solo una, non c’è un altro tempo che si dipana su di questo. È un po’ come dire: “Possiamo immaginare tante vite, ma non rinunciare alla nostra”, parole di Giuseppe Pontiggia in chiusura di “Nati due volte”, romanzo sulla sua esperienza col figlio disabile. Altro tema in comune fra i due libri (arrivando, per una certa proprietà transitiva delle trasposizioni cinematografiche, a “Le chiavi di casa”, film di Gianni Amelio ispirato a Pontiggia) è quello della vergogna. Il figlio, in quanto immagine e somiglianza del padre (anche qui la religione non fa altro che sublimare esperienze correnti), esalta o umilia la vanità genitoriale che in esso vorrebbe rispecchiarsi. Pratica spinosa, specie in un periodo come quello in cui la “politeness” linguistica era un problema remoto e il linguaggio della scienza tradiva la sua matrice imperialistica. John Langdon Haydon Down i suoi pazienti li aveva chiamati mongoloidi e qualcuno ancora li considera eredi di un’infamia.
“Che tipo di mentalità definisce una sindrome secondo la somiglianza con i tratti di una etnia? – si chiede Tezza abbozzando forse un sorriso. – L’uomo britannico come misura di tutte le cose”.
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