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Accesi il computer e con molta lentezza (rete intasata? E che palle) sulla homepage di tutti i quotidiani online vidi campeggiare un'unica, enorme, terrorizzante scritta: “LA BANCAROTTA DELLA SVIZZERA”. A quanto pare i nostri vicini avevano qualche problema sotto il tappeto che per una strana congiuntura astrale ha deciso di saltare fuori proprio oggi. Iniziai a scorrere con molta disattenzione l'articolo mentre nel mio cervello faceva capolino una domanda: ecchissenefrega? Ma impiegai poco a capire.
Era semplice: per appianare il debito il Parlamento svizzero aveva approvato, con un provvedimento senza precedenti, un prelievo forzoso del dieci per mille da tutti i conti correnti bancari. La legge sarebbe entrata in vigore a partire dal giorno dopo.
In pratica, i riccastri di tutto il mondo erano in preda al panico. Dalla rete intasata riuscii a carpire immagini di aeroporti e stazioni presi d'assalto, richieste disperate di passaggi in aereo su Twitter e su Facebook di chi era rimasto a piedi e, povero lui, non poteva disporre di un volo privato – e l'Audi Q7, in una strada bloccata, non può sfogare appieno tutta la sua potenza. Mi scollegai alla rete quasi inservibile e decisi di fare una passeggiata. La notizia era ormai di dominio pubblico. Vidi un bel po' di attività chiuse: studi medici e legali, gioiellerie, boutique, ma anche fruttivendoli, edicole, autofficine. Vedevo gente andare in giro con cartelli del tipo “cerco volo charter per Zurigo: pago bene” e altri sdraiarsi di fronte ai taxi pieni, implorandoli di scarrozzarli fino alla stazione. Il caos era incredibile. Altri come me osservavano la scena sbigottiti, con il sorriso sulle labbra ma con una furiosa domanda che lampeggiava nei loro occhi: quanti cazzo di ricconi ci sono in Italia? Da dove sono spuntati?
La stazione era un autentico delirio: pregavano in ginocchio per un biglietto, tiravano fuori il libretto degli assegni: “Le do quanto vuole”, sventolavano carte di credito di ogni tipo, chiedevano di parlare con i responsabili, qualcuno urlava: “Compro la stazione! Compro tutti i biglietti!”, mentre dietro a lui la coda era un concerto di suonerie polifoniche e balbettii nervosi agli auricolari. Me ne andai prima che iniziasse qualche rissa.
A metà mattinata la rete era inaccessibile. I telegiornali parlavano di svariati infarti, mancamenti, momenti di tensione, bollini neri sulle strade italiane eccetera eccetera. Le operazioni bancarie di trasferimento verso altri lidi felici procedevano a fatica e molte di esse, chissà perché, passavano dall'Italia e lasciavano delle tracce. E alcune si fermavano a causa di strani cavilli procedurali. “Si tratta del più massiccio rientro di capitali della storia italiana”, dicevano. E senza scudi fiscali, aggiungevo io.
Il giorno dopo spuntò un messaggio su internet. Un tizio di spalle diceva di essere penetrato nella rete svizzera e di aver taroccato i dati economici per scatenare il putiferio, e poi di aver fatto in modo che tutte le operazioni passassero dall'Italia, lasciando il resto del lavoro alla burocrazia. “I soldi vanno presi a chi ce li ha, e soprattutto a chi ce li ha e fa finta di non averli. Chi ci governa, per paura e per convenienza, non l'avrebbe mai fatto: l'ho fatto io al posto loro”. I media si fiondarono come bestie sull'hacker senza nome, sperarono con tutto il cuore in una sua ricomparsa, ma svanì nel nulla. La polizia postale non scoprì mai la sua identità, e mai si capì se fosse tutto vero o solamente la piazzata di un megalomane in cerca di un quarto d'ora di celebrità. Ma ormai danno era fatto, i soldi rientrati erano tanti e splendenti alla luce del sole. Quindi a me, caro hacker, non frega niente se sei stato tu. Nel tal caso, ti ringrazio con tutto il cuore. Se non sei stato tu, grazie comunque per le tue parole. Sono cibo per gli onesti.
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