Bene, poveri noi che pensavamo di essere a conoscenza di tutte le pietre preziose della musica nostrana. Ci imbattiamo in un gruppo che aspira a qualcosa di più che istigare la mandria a ballare, a “pogare”; già, perché con i Green Like July si assurge immediatamente ad un livello di consapevolezza musicale superiore, ci si inoltra in un’altra ionosfera, si va al succo della questione: la musica come godimento, immaginazione, bellezza. Nati nel 2003, i Green Like July (Andrea Poggio – chitarra acustica e voce, Nicola Crivelli – basso e cori, Paolo Merlini – batteria) producono da subito diversi mini-disk autoprodotti e, dopo essersi esibiti un po’ dappertutto, nel 2005 non danno alle stampe il primo lavoro, “May This Winter Freeze My Heart”, registrato presso la Candy Apple Records, etichetta indie milanese. Nell’anno seguente avviene uno scisma temporaneo, in quanto Andrea e Nicola si trasferiscono a Glasgow, Scozia, dove entrano in contatto con la scena musicale locale capitanata dai leg endari Arab Strap. Suonano, compongono, si esibiscono, finché – col rimpatrio – non assumono in pianta stabile Paolo, il batterista. E la frittata è fatta. Poco dopo infatti tornano in studio per registrare l’album che vedrà la luce il prossimo 11 febbraio 2011: l’ottimo “Four-Legged Fortune”, un raffinato simposio post-folk, limpido come il cielo, che rilegge in chiave ventunesimo secolo le lezioni di Dylan, Neil Young, The Band, dei Grateful Dead del dopo-psichedelia di “American Beauty”. Eppure, che ci crediate o no, l’altra gamba dei Green Like July è ben salda nel nostro tempo, nella contemporaneità acustica dei Decemberists, degli Eels, Micah P. Hinson, talvolta Beirut, Bright Eyes o di un Devendra Banhart, di un Berth Jansch. Ballate fresche e dirette, pulite, con un mordente melodico ineccepibile, le 9 gemme di “Four-Legged Fortune” accompagnano l’ascoltare per un “coast to coast” imprevedibile fino alla baia di San Francisco, passando per testi tutt’altro che scontati e sonorità che racchiudono una serenità equilibrata, genuina, rara in questi tempi di musica inutilmente aggressiva. Basta semplicemente prestare ascolto a brani come “Flying Scud”, apertura azzeccatissima sulle orme di una “Like a Rolling Stone” classe 2011, oppure ai tocchi dandy di “Was it Worth After”, alla spensierata, quasi corale “Hardly Thelma” e, per chiudere in bellezza, a “Saint John’s Cross”, dipinta con pregevoli mordi e fuggi di chitarra acustica e organo hammond. Dettaglio non trascurabile, non è un caso che “Four-Legged Fortune” sia stato registrato in Nebraska, Stati Uniti, presso i prestigiosi ARC Studios di Omaha, città piena zeppa di storia della musica come un’enciclopedia. Il risultato è dunque un disco privo d’ogni campanilismo, d’ogni facile piagnisteo di provincia, il prodotto meno alessandrino che possiate immaginare. Con un occhio rivolto oltreoceano e l’altro verso l’Inghilterra degli ultimi quarant’anni, questo disco può permettersi – senza accecarsi – di guardare in alto.
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