Primo: i Tomakin hanno le carte in regola per fare breccia su molti fronti, su molte categorie di ascoltatori. E sono partiti in quarta. Il loro album, “Geografia di un momento”, pubblicato lo scorso marzo, è un lavoro solido, diretto, a tratti leggero e onirico, a tratti greve e malinconico come un autunno post-atomico; ricco di spunti che non passano certo inosservati e che difficilmente, chi sta dall’altra parte dello stereo o del palco, può ignorare. Dimenticate le ballate strappasentimenti per neo adolescenti rinchiusi in camera a trastullarsi con l’iPod ripieno di zucchero, dimenticate gli inutili cloni di Tizio Caio e Sempronio, dimenticate quel goffo sound italiota, di provincia, perennemente travestito da sound cosmopolita; dimenticate gli stratagemmi del pop che fa da esca agli onnivori, dimenticate il pogo, le cavalcate metal, gli assoli di chitarra per la tangente, le urla e i tecnicismi.
Secondo: è sostanzialmente inutile dire cosa i Tomakin non sono, è invece molto meglio dire ciò che sono: rock indipendente colto ed equilibrato, di buon gusto, indubbiamente spruzzato qua e là di new wave ed electropop, originale sia nella composizione sia nelle linee vocali, queste ultime capaci di inculcarsi nel cervello e di non uscirne per ore. Non è una scelta facile, quella di farsela con gente come Smiths, The Sound, Japan e David Byrne. Occorre innanzi tutto possedere una buona dose di idee nel cassetto, di saperle sviluppare e tradurre in note, di buttare giù brani seducenti; il tutto sorretto da arrangiamenti eleganti ma spontanei, sobri ma in costante contatto con quelle muse imprescindibili chiamate fantasia ed immaginazione.
Siamo in un’epoca in cui grazie alla tecnologia in una canzone si può inserire di tutto, spaziare come astronauti sperduti nell’universo attingendo da tutto ciò passa, un’epoca in cui nessuno si stupisce più di niente; sta tutto nel non farsi prendere dalla smania di imbottire troppo il panino sonoro, nel non perdere contatto con la canzone in quanto tale- che dovrebbe essere, prima d’ogni cosa- una goduria per l’ascoltatore e non uno sfoggio vanesio dell’autore. E in questo i Tomakin fanno centro, inserendo tocchi elettronici a macchia di leopardo perfettamente calzanti e funzionali alla struttura della canzone.
Brani come “Joasia” non sono facili da sfornare. Hanno un’atmosfera tutta loro, filano via che è un piacere, smuovono qualcosa in chi le ascolta. Hanno un’anima. Poi ci sono “Maree”, “Quando Sogno”, “Amore Liquido”, “Bar Code”, dove i primi anni ‘80 si fondono coi giorni nostri (Interpol) e Morrisey è sempre lì dietro l’angolo; l’ombra gelida e paranoica dei CCCP in “Collasso”, l’attitudine dei Clash nelle soluzioni sonore di “Autoconvinzioni”(peccato per quella parte rappata, ma questo è un problema di chi scrive)… insomma, l’ambito, la ricetta, sono quelli: un indie rock in salsa new-romantic che sa sia di oltremanica che di Belpaese, brani che non si dilungano troppo e un inossidabile connubio tra linee vocali e arrangiamenti.
Il line-up dei Tomakin è composto da Alessio Mazzei (voce, microsynth), Daniel Joy Pistarino (synth), Giovanni Facelli (chitarra, microsynth), Denis Martino (basso), Valerio Gaglione (chitarra) e Manuel Concilio (batteria). Se volete vederli in azione- e ve lo consigliamo- li troverete il 30/12 al Bar Gusta di Acqui Terme, il 31 al capodanno in piazza a Genova e il 19/1 al QBA di Alessandria.
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