È l’apoteosi. Tre anni di furia disgregatrice hanno finalmente conseguito l’obbiettivo della débacle e del dissolvimento dello schieramento di governo. Dissolvenza dello schieramento non comporta necessariamente l’eclissi totale e il sacrificio del suo leader. Berlusconi, al contrario, pare del tutto intenzionato a occupare l’agone politico almeno sino alle elezioni, anche in una posizione, alquanto improbabile, di opposizione. I più esagitati nei vari schieramenti lo paragonano a Gheddafi e gli preconizzano una fine simile. Il confronto, ahimè, non regge e conferisce al Cavaliere una aura di nobiltà immeritata. Gheddafi ha affidato ai propri carnefici inglesi e americani la riorganizzazione dei propri servizi di sicurezza, ha tentato una apertura liberista dell’economia libica, ha colluso con i servizi e governi più insospettabili, ha consegnato i propri artigli ai predatori cercando e ritenendo di salvaguardare un livello essenziale di indipendenza ed autonomia del proprio paese. Ha dato segni di evidente ripensamento con l’adesione al tentativo di costruzione di un asse italo-libico-turco-russo e di uno equivalente con alcuni stati africani, in primis il Sud-Africa. Aveva, però, ormai covato il nido di serpi in seno; il fuoco e il calore dei missili e dell’artiglieria dei “volonterosi” le hanno risvegliate, la presenza a terra degli “animalisti a contratto” occidentali e sauditi ha permesso la protezione e la schiusa delle fragili uova. I rettili sono velenosi, portatori di morte e spesso cannibali; incapaci, però, di costruire una qualche comunità animale evoluta. Per agire seguendo una qualche strategia, hanno bisogno di un ipnotizzatore. Obama l’incantatore, ha indirizzato con successo il loro morso venefico verso la “Grande Guida”; ma qualche punzecchiatura è già arrivata, per il momento non mortale, anche agli animali domestici del cortile presidenziale, compreso il galletto francese Sarkozy. La fine di Gheddafi ha assunto i tratti amari, nobili e drammatici di una tragedia. Berlusconi pare più simile al generale Younis con la differenza che il secondo ha, per lo meno, cambiato schieramento in corso d’opera, il primo deterrà il comando dello schieramento apparentemente avverso all’incantatore sino alla sua totale dissoluzione e/o al suo totale asservimento sotto altre spoglie; “alien” e “predator”, quelli di Ridley Scott, allo stesso tempo. Servirà a protrarre l’esistenza di un centrodestra composito, minoritario, subalterno e paralizzato, a ostacolare ulteriormente la formazione di un nucleo politico più attento alle esigenze e agli interessi nazionali, suscettibile di trarre alimento più da quel versante, a concedere al centrosinistra quella linfa vitale, residua e temporanea di “antiberlusconismo pur senza Berlusconi al governo” necessaria a protrarne la sopravvivenza in una qualche forma unitaria. Sta di fatto che, purtroppo, a diciotto anni dal colpo di mano, dalla svendita e dall’asservimento in gran parte riusciti, ci sono quasi tutte le premesse per completare l’opera. Allora gli avvenimenti assunsero il carattere più di un complotto estemporaneo che di una sapiente strategia, anche se i risultati, per i dominanti, non furono affatto trascurabili dal punto di vista economico e strategico, più controversi, invece, dal punto di vista della gestione politica. Si identificò con leggerezza l’europeismo mitologico e lo sdegno purificatore di mani pulite allora dilaganti con la certezza di una vittoria duratura e scontata del centrosinistra di matrice azionista e popolare. Ma quarant’anni di contrapposizione ideologica, tanto radicale quanto apparente e parziale, sono facili da accantonare in una élite trasformista; appare molto più complicato rimuoverli dalle convinzioni profonde delle moltitudini chiamate ad avallare le decisioni. Da questa sottovalutazione e dall’eccessiva sicumera di una superpotenza inebriata dalla possibilità di dominio unipolare si formò l’humus necessario alla nascita del berlusconismo. L’apogeo del movimento fu raggiunto ad inizio secolo, quando l’affermazione del tandem Bush-Rumsfeld, con la focalizzazione dello scontro in Asia con vessillo ideologico, necessario a giustificare l’interventismo unilaterale, la lotta all’integralismo islamico, consentì un accordo più o meno esplicito o tollerato con il quale Berlusconi, in cambio di una azione di logoramento del sodalizio europeo potenzialmente autonomo (uscita dal consorzio Airbus, ridimensionamento del progetto Eurofighter, critiche al neutralismo tedesco e all’avversione francese alla guerra in Iraq, ect) avviò una politica di avvicinamento a Russia, Turchia e Libia tale da offrire nuovi spazi alle residue industrie strategiche italiane. Il trionfo elettorale del 2008, concomitante all’elezione di Obama negli Stati Uniti, rappresentò, in realtà, l’avvio della fase crepuscolare del centrodestra. Oggi l’epilogo, culminato con l’incarico di governo a Monti, rappresenta il frutto avvelenato di una strategia più sapiente avviata nel 2008 e consentita dal cambiamento di scenario rispetto agli anni ’90. L’ultradecennale attenzione morbosa della magistratura e la precipitazione della crisi nel 2007/2008 hanno messo a nudo l’assoluta inconsistenza e pletoricità dello schieramento di centrodestra e la mediocre levatura politica del leader. Nessuna capacità di controllo degli organismi fondamentali dello stato, nessuna parvenza di costruzione di un qualsivoglia blocco sociale capace di difendere minimamente gli interessi nazionali, nessuna autorevolezza personale. Il risultato è una sorta di Signor “Vorrei Ma Non Mi Permettono, Quindi Eseguo”, ottimo principio informatore di una fantesca di corte, molto meno di un capo di stato. In un contesto in cui la destabilizzazione continua e progressiva di interi paesi, gli interventi militari e gli attacchi finanziari sono gli strumenti non solo di affermazione dell’egemonia della potenza dominante e di neutralizzazione delle ambizioni delle potenze emergenti, ma anche armi per determinare la gerarchia di quelli gregari in conflitto e collusione tra loro, rappresenta quanto di più deleterio possa accadere ad un paese. Il conflitto tra gli schieramenti politici è diventato, quindi in Italia, sempre più una competizione paradossale fra chi è più in grado di garantire, dalla Libia alle politiche comunitarie, almeno a parole, l’attuazione di politiche eterodirette. Il sostegno mediatico a questo teatrino, condotto in prima fila dai quotidiani istituzionali e benpensanti, Corriere e Sole24Ore e quindi dalle testate dichiaratamente partigiane, è impressionante. L’aplomb ipocrita costruito dalle due testate è via via esploso nelle peggiori contumelie codine. Sulla Libia si è passati via via dalla spiritualità della difesa della democrazia e dei diritti umani, al chinarsi alla ragion di stato, ovviamente quella degli Stati Uniti, agli obblighi di fedeltà, o meglio di servitù, alle ragioni di opportunità di partecipazione alla spartizione di un bottino già sfuggito di mano, per arrivare al conseguimento di un semplice ruolo di “civil servant” (impiegato statale), senza stipendio e molte spese, di una sporca causa; lo stesso assunto con entusiasmo da Mario Monti. Analogo, ma ancora più emblematico, il comportamento sulla crisi del debito pubblico. Si è iniziato con l’esortazione del rispetto delle regole “naturali” di mercato; si è proseguito poi con l’ammissione che queste regole erano in qualche modo condizionate dai comportamenti collusivi e predatori delle società di rating e delle banche di affari, ma che essendo comunque il mercato giudice dei comportamenti, ai suoi dettami, comunque, bisogna aderire; si è intravisto il ruolo delle strategie politiche e dei conflitti strategici, in particolare degli ultimi interventi militari, nel determinare le dinamiche della crisi finanziaria ma per giustapporre gli ambiti o, tuttalpiù considerare i primi come semplici fattori di stabilizzazione del mercato. I più audaci iniziano ad accusare apertamente Francia e Germania di politiche predatorie ai danni dei paesi del Sud-Europa; rilevano che i criteri di valutazione del sistema bancario e delle sue riserve valutarie, penalizzano le banche esposte sui titoli pubblici, come quelle italiane e salvaguardano quelle Centro-Europee, di gran lunga più esposte sul debito privato e sui titoli spazzatura dei quali, per inciso, ancora si fatica a conoscere l’esatta consistenza nei forzieri. Denunciano orgogliosamente che i fondamentali economici non giustificano gli attacchi speculativi e rivendicano orgogliosamente l’adozione delle prescrizioni altrui. Un residuo e mal riposto sussulto di dignità teso al diritto di spararsi da soli una schioppettata sui piedi, piuttosto che offrirsi al fuoco amico. Questo rigurgito di nazionalismo straccione e tardivo rivendicato nei confronti esclusivi delle due nazioni europee è, però, pernicioso e del tutto funzionale alla politica del caos americana tesa a scoraggiare e neutralizzare improbabili ambizioni autonome della Francia e, soprattutto, della Germania. Tanto è vero che tutte le testate, anche le più bellicose, omettono il ruolo determinante degli Stati Uniti nella crisi finanziaria, glissano sul fatto che l’esposizione delle banche tedesche e francesi dipende dal loro intreccio più stretto e subordinato con le banche di affari americane, evitano di sottolineare che Merkel e Sarkozy si azzuffano perché una parte del default greco sia addebitato alle loro banche o integralmente al fondo pubblico, ma evitano attentamente di coinvolgere nel carico le banche americane e inglesi titolari dei CDS, cioè di quelle assicurazioni necessarie a coprire i danni da insolvenza; glissano sul coinvolgimento determinante del Fondo Monetario nelle politiche sovrane dei paesi europei esposti. Tanta indignazione e tanto amor patrio alla fine si risolve nella critica a Berlusconi di non aver fatto proprie, “sua sponte” e tempestivamente, le prescrizioni epistolari della Comunità Europea e del FMI; dal canto suo, specularmente, nello sfidare il centrosinistra ad attuare quelle politiche. Tutti accettando le imposizioni e le invasioni di campo, gli uni fingendo costernazione, gli altri entusiasmo. In realtà, in Italia, si sta assistendo ad uno scomposto fuggi-fuggi, ad una fibrillazione generale in cui le varie categorie, corporazioni e gruppi di interesse cercano di salvaguardare il possibile delle loro prerogative. Così i piccoli e medi industriali invocano l’attuazione dei 39 punti del Consiglio Europeo, nella speranza di salvaguardare una parte del loro ruolo complementare, ma non più insostituibile, nella economia europea; Confindustria propone alla CGIL un patto che sacrifichi i pensionati in cambio di una temporanea salvaguardia del pubblico impiego. Quello su cui non spendono una parola e, quindi, su cui sono conniventi è il sacrificio e la subordinazione della residua industria strategica in cambio di una loro temporanea e fragile sopravvivenza. Tutti invocano liberalizzazioni e dismissioni, specie dei servizi pubblici, con l’esplicita ambizione che una parte di queste serva a soddisfare gli appetiti predatori di società estere, un altra le rendite parassitarie dei gruppi nostrani più piccoli. Gli autori del blog hanno più volte affermato che la rinascita del paese può nascere solo dall’affermazione di una élite in grado di costruire una strategia politica più autonoma dai dettami atlantici, di trasferire ingenti risorse dai settori assistenzialistici e parassitari a quelli produttivi e in grado di garantire la necessaria potenza alle strategie, di costruire l’indispensabile blocco sociale capace di dare nerbo e linfa ai progetti. In questo quadro, la diatriba etica tra pubblico e privato lascia il posto all’opportunità di utilizzare uno o l’altro in funzione delle necessità e delle possibilità oggettive; le liberalizzazioni da atto salvifico e taumaturgico generalizzato a provvedimenti adatti in alcuni settori specifici, subordinati al mantenimento del patrimonio professionale e tecnologico di cui ancora dispone il paese e legato, comunque, nei settori esposti, alla costruzione e mantenimento di singoli grandi operatori in grado di garantire il controllo dei servizi; la riorganizzazione delle amministrazioni statali e l’introduzione di criteri di efficienza, anche privatistici, deve essere finalizzata alla riduzione e conversione dei ruoli e ceti parassitari, a partire dagli scalini più alti della gerarchia per arrivare ai ceti medi e agli strati popolari, anch’essi ampiamente coinvolti. I due ultimi decenni bui, corrispondono quasi alla lettera, ai secoli bui d’Italia iniziati nel ’500. L’atto di eroismo sul suolo patrio di allora più sbandierato dalla retorica nazionale fu la disfida di Barletta: la vittoria in pubblica tenzone di tredici cavalieri italiani al soldo degli invasori spagnoli ai danni di tredici cavalieri invasori francesi. Anche oggi, la lista di valenti personaggi italici che danno lustro e fama al paese e denaro e ricchezze agli invasori è tanto numerosa quanto la debolezza e l’insignificanza politica dello stivale. Uno dei tredici cavalieri italici contemporanei di simil specie potrebbe essere sicuramente il ministro Frattini, perfettamente armato di sci; ma la lista dei proseliti è sicuramente sovrabbondante e con ben altre capacità. Temo, però, che abbia frainteso, lo deduco dal suo sorriso sempiterno, le epiche battaglie dei pupi siciliani con la crudezza e le atrocità delle guerre vere. Sono stati venti anni di paralisi e di progressivo degrado che hanno impedito non solo l’emergere di una componente nazionale significativa ma nemmeno la formazione di un blocco sociale in grado di ritagliarsi una qualche posizione subordinata ma significativa nel contesto internazionale; solo gruppi in contrapposizione sterile tra loro e disposti a legarsi, a qualsiasi condizione, ai referenti di oltreatlantico e oltralpe pur di salvaguardare le proprie prerogative. Diversamente, per inciso, la Germania, tanto per fare un esempio di paese subordinato, con la gestione dell’euro e del mercato comune e con una rigorosa riorganizzazione della propria formazione sociale d’inizio secolo, è riuscita a conseguire risultati diversi. In questo contesto si può forse spiegare l’atteggiamento ostile e solitario della FIAT di Marchionne nei confronti di Confindustria e di gran parte del ceto politico italiota. Un terreno fertile, comunque, alla calata dello straniero, invocato dagli inetti e portatore di una qualche forma di ordine. Basterebbe leggersi le dichiarazioni sibilate da Van Rompuy ad Alfano sull’impazienza degli investitori inglesi e americani nel vendere titoli pubblici italiani in caso di mancata fiducia a Monti entro lunedì. L’arrivo trionfale di Mario Monti, ampiamente preannunciato negli ultimi tre anni, rappresenta il momentaneo epilogo delle vicende; l’apoteosi crepuscolare. L’entusiasmo delle tante fondazioni ispirate al liberismo economico, l’Istituto Leoni tra i tanti, svelano più di tante parole. Non è un governo tecnico, se si assume il termine come sinonimo di neutrale, semplicemente perché un capo di governo e corrispondente istituzione neutrali non esistono. Non è detto che sia un capo tecnicamente competente e irreprensibile a guardare la produzione scientifica e le vicende della Commissione Europea, in particolare di quella Santer. Esistono, invece, governi più o meno rappresentativi; meno lo sono, più sono soggetti alle pressioni dirette e occulte di lobby e gruppi di interesse scarsamente mediati. Su questo Monti potrà apportare sicuramente la sua decennale esperienza di Commissario Europeo, luogo d’elezione deputato alla gestione delle lobby, privo degli infingimenti e degli orpelli dell’attuale democrazia rappresentativa. Il fautore della economia sociale di mercato, di un mercato cioè regolato secondo l’interesse dominante e che impedisce la formazione di imprese in grado di sostenere il peso di strategie mondiali e di una compensazione meramente redistributiva degli squilibri prodotti da esso, rappresenta la figura ideale per sancire la subordinazione irreversibile del nostro paese; quanto meno favorirà, in ossequio alle direttive europee, l’ulteriore frammentazione del nostro patrimonio industriale e di servizi strategico. La sua retorica sulla virtù di un mitico mercato e sulla cancellazione dei privilegi nasconderà per qualche tempo le defatiganti trattative e i compromessi di interesse subordinati alle direttive imposte da FMI e Comunità Europea, cioè per buona approssimazione da Stati Uniti, Francia e Germania. In realtà non esiste un mercato unico, ma tanti mercati regolati secondo convenienze, strategie e peso dei contendenti. Il WTO, organo di elezione del mitico mercato unico, è in realtà il luogo dove sono trattate le singole condizioni di ingresso dei singoli paesi da parte, soprattutto, del paese dominante e dei suoi alleati. La Russia, ad esempio, dovrebbe aver imparato qualcosa in proposito, dopo diciotto anni di attesa, terminati, stando agli impegni verbali, solo in questi giorni. La presenza di questo organismo, tra l’altro, non sta impedendo la progressiva formazione di zone di influenza dei paesi più grandi e potenti, regolate da trattati politici, non solo economici. Lo stesso può dirsi, su scala minore, del mercato comune europeo. Con Monti, però, la quadratura del cerchio non è completa. Rispetto a venti anni fa, il disincanto verso le virtù dell’Europa Comunitaria è molto più radicato, come lo è la diffidenza verso la corporazione della magistratura, vero pilastro della battaglia politica di questi ultimi lustri. L’ascendente di Berlusconi sul proprio schieramento si è di gran lunga affievolito e potrebbe portare alla frammentazione degli schieramenti e alla liberazione di forze ancora parzialmente soggiogate dalle logiche da repubblica antifascista e da mondo bipolare. Le esigenze predatorie delle élites amiche sono vieppiù fameliche nella misura in cui le zone di influenza saranno delimitate e lo scontro diverrà più virulento. La scarsa disponibilità di risorse e i rivolgimenti metteranno a dura prova la tenuta degli schieramenti tradizionali. La stessa debolezza intrinseca di un governo tecnocratico che per sua natura deve giustificare i provvedimenti e le politiche sotto un aura di presunta imparzialità costruita su continue quanto inafferrabili pressioni esterne legate al “mercato”, alla “credibilità internazionale”, alla “fedeltà alla comunità europea e internazionale” ma che è privo della mediazione diretta e necessaria di solidi partiti politici potrà reggere sempre meno dal punto di vista emotivo. Il più lucido, in questo contesto, mi pare Pier Ferdinando Casini il quale, sin da subito, ha indicato nel Governo Monti la piattaforma di un nuovo futuro schieramento e il motore per la costruzione di un blocco sociale più coeso. Si integrano perfettamente, inoltre, con le considerazioni presenti nella recente prolusione del Cardinale Bagnasco, nel seminario successivo della associazioni cattoliche, tenuto a Todi e con gli appelli reiterati della Marcegaglia e di varie figure imprenditoriali, riguardanti la necessità di formare un nuovo gruppo dirigente in Italia. Più il Governo Monti durerà, più il PDL ed il PD rischieranno la frammentazione o il ridimensionamento e su questo “SuperMario bis”, niente a che vedere quanto a spessore rispetto all’omonimo, troverà manine d’oltralpe e d’oltreoceano comprensive e disposte a concedergli, almeno a breve, tregue parziali. Oltre ai sondaggi, converrà seguire gli indici di borsa, terreno certamente più congeniale a un tecnocrate. Non a caso si parla di un Berlusconi disposto a rifondare un partito del 15% ma, conosciuto il personaggio, con le stesse mistificazioni e gli stessi tradimenti. Il blog, in questa fase, come lo fa per il contesto internazionale, dovrebbe seguire con altrettanta attenzione certosina le politiche di questo futuro governo perché da esse si riuscirà ad intuire i possibili sviluppi della nostra formazione sociale e le possibilità di costruzione di un blocco sociale finalmente alternativo; la stessa legge finanziaria e di stabilità offre numerosi spunti a proposito. Dalla nostra una constatazione e una consolazione scaramantica. Più il personaggio è sponsorizzato da “Repubblica”, più il futuro della sua carriera appare magnifico e progressivo nei proclami, nebuloso nella realtà. Un augurio per noi e per gran parte degli italiani, un esorcismo per lui. Infine una domanda al milione di indignati. In Italia avremo ormai un Presidente del Consiglio, un Direttore della BCE, un Ministro dello Sviluppo espressione diretta della finanza; gli indignati e gli “occupy Wall Street” si sono agitati per decenni senza costrutto contro i mulini a vento delle banche e della finanza e del 1% di affamatori. In Italia, condizione eccezionale ed irripetibile, sono presenti in carne ed ossa, con nome e cognome e con gli sponsor esposti pubblicamente; da Obama in giù. Che intenzioni hanno? Oppure è bastata qualche parola di comprensione paterna per dissolversi? Su questo, ancora una volta, “Repubblica” rischia di essere profetica: “spetta al Partito Democratico di Obama raccogliere le frustrazioni di un movimento già sulla via del tramonto” e che senza Soros, probabilmente, non sarebbe nemmeno nato. Il disco rotto (di Giuseppe G.)