Metto subito il link a questo reportage del Guardian sulle fabbriche di vestiti in Bangladesh, sul Rana Plaza e sulle conseguenze tragiche del nostro consumismo; lo metto subito perché è multimediale e fa un sacco di rumori quando si apre, quindi ne libero il mio browser prima che mi rincoglionisca (ah, l’horror vacui dei nostri tempi ansiosi…).
Al di là dell’ovvio – sfruttamento, consumismo, ambiente, diseguaglianze globali, crescita della popolazione… – non ho potuto fare a meno di notare come queste donne poverissime che fanno vestiti per noi ricchi siano molto più belle ed eleganti degli occidentali che i loro vestiti li comprano. Mi stupisco sempre della bellezza dell’abbigliamento tradizionale sudasiatico: magari non hanno da mangiare, ma anche le mendicanti indossano sari meravigliosi.
Un giorno dovrò capire perché più le masse si arricchiscono, più tutto diventa brutto. Non dovrebbe essere il contrario? La fretta, il consumismo, l’emulazione veloce, la mancanza di cultura, la voglia di cambiare più che di godersi quello che si ha, la perdita di competenze artigianali e l’abbandono dell’autoproduzione e quindi di un proprio gusto probabilmente spiegano perché erano più eleganti i contadini dell’Ottocento degli italiani di oggi.
Ma non voglio essere irrispettosa della tragedia: l’aspetto commerciale ed estetico, davanti a certe cose, passa in secondo piano.
Io continuo a farmi i vestiti da me o al limite a comprarli usati o ereditarli. In passato ho comprato cose fatte in Bangladesh, ma ho smesso da anni. Se guardate il reportage probabilmente smettete anche voi.