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Banlieue Rouge o Banlieue ordinaire: Il Partito Comunista Francese e la periferia di Parigi nella crisi degli anni Ottanta

Creato il 04 aprile 2012 da Ilcasos @ilcasos

Elle crèche cité Lénine
Une banlieue ordinaire
Deux pièces et la cuisine
Canapé frigidaire
Péfèrerait habiter
Cité Mireille Mathieu
Au moins elle sait qui c’est
Pi c’est vrai qu’ça f’rait mieux
Sur les cartes de visite
Qu’elle utilise jamais
Ça mettrait du ciel bleu
Sur les quittances de gaz
L’en parlera au syndic
Si elle a une occase

Elle habite quelque part
Dans une banlieue rouge
Mais elle vit nulle part
Y a jamais rien qui bouge
Pour elle la banlieue c’est toujours gris
Comme un mur d’usine comme un graffiti

Renaud Séchan, Banlieue Rouge, in Le Retour de Gérard Lambert, (CD), Polydor, 1981.

Introduzione

Una banlieue ordinaire, ovvero una periferia ordinaria. Qui la noia e la ripetizione di giornate fatte di fabbrica, un pinard al bar e poi casa sembrano essere i momenti salienti di una quotidianità di migliaia di persone che, attraversando Boulevard Lénine, Avenue President Alliende e costeggiando Place Robespierre o de l’Insurrection, vanno dalla fermata della metro o della linea di treni interurbani RER fino al proprio appartamento nella Cité Maurice Thorez o Immeuble Pablo Picasso. Una passeggiata panoramica fra il mitico, il mitologico e il salto nel passato.

Youri Gagarin in visita in una banlieue nel 1963

Youri Gagarin in visita in una banlieue nel 1963

Ciò che può sembrar ormai folkloristico – quasi quanto il busto di Lenin nell’emiliana Cavriago (RE) – sono in realtà le ultime vestigia di un tempo in cui veramente tutta la popolazione di questi comuni periferici si recava nella piazza davanti al municipio per le commemorazioni della Liberazione, la partenza dei bimbi delle famiglie operaie per le colonie di vacanza, la cerimonia del saluto alla rappresentanza annuale dell’Unione Sovietica. Nell’ottobre del 1963, da queste parti, venne in visita anche il cosmonauta Iuri Gagarin e fu una gran festa.
Ma dagli inizi degli anni Ottanta questa “mitica” periferia, ed in particolare quella di Parigi, la cui storia in questo articolo andremo ad analizzare, ha perso questo volto, assumendo quello di una schiera di grigi palazzi, abitati da generazioni di persone apparentemente condannate alla marginalità e ad una vita, per l’appunto, ordinaria.
Le cité, i grandi complessi edilizi di alloggi popolari, definiti nel linguaggio giovanile galère sono state negli ultimi trent’anni lo spettro della Repubblica Francese che qui sembra aver fallito nella sua missione di integrazione e di offerta di uguali possibilità per tutti proprio sotto l’egida della Liberté, Egalité et Fraternité: immigrati che portano con sé storie di drammi coloniali irrisolti, un abbandono scolastico che non ha eguali nelle grandi città, un tasso di disoccupazione all’incirca del 20% contro un 9% di media nazionale, lo spaccio, e lo Stato e le istituzioni repubblicane percepite solo nell’oppressione del controllo quotidiano da parte della polizia, abituata ancora ad esercitare l’orrenda pratica, risalente al periodo della Guerra d’Algeria, del contrôle au faciès, ovvero per tratti somatici, quindi per colore della pelle.

Dopo le grandi proteste del 1981, l’attenzione sulle periferie era calata, quando nel 2005 l’argomento irruppe nuovamente nel dibattito mediatico. A Clichy-sous-Bois, dipartimento della Saint-Saint-Denis, due ragazzi, Zyed Benna (17 anni) et Bouna Traoré (15 anni), morirono e un terzo, Muhittin (17 ans), rimase gravemente ferito, per essersi rifugiati in una centralina elettrica nella speranza di evitare un controllo di polizia. A quella nottata, di per sé già drammatica per la morte di due adolescenti in circostanze apparentemente ingiustificabili, seguirono mesi di sommosse nelle periferie di 300 comuni francesi, tutte le grandi città eccezion fatta per Marsiglia. Oltre al pesante bilancio di vittime, processi, vetture ed infrastrutture andate in fiamma, il 2005 lasciò in sospeso una questione. Che cosa sono diventate le banlieue? Che cosa non ha funzionato in quest’angolo di paese, in cui comunque lo Stato francese ha provato ad intervenire, oltre che con dispositivi di controllo, anche con piani di riqualificazione, recupero e investimento[1]?

Le rivolte nelle banlieues del 2005

Le rivolte nelle banlieues del 2005

La politique de la ville (definizione generale del complesso dei piani lanciati dallo Stato francese per risolvere le problematiche della relegazione urbana) in trent’anni non è stata in grado di fornire delle risposte ai nodi posti da queste aree sensibili del paese, abbandonandole di fatto ad un lento deteriorarsi delle condizioni esistenti, di cui le esplosioni di rabbia sono solo la cartina tornasole. Lo confessa in un’intervista alla rivista «Megalopolis» Claude Dilan, sindaco socialista di Clichy-sous-bois nei giorni delle rivolte del 2005:

Il meno che possa succedere sono i tumulti. Se si pensa che il metro di valutazione del grado di malessere nelle banlieu sia il numero delle vetture bruciate, ci si sbaglia. Il vero metro di valutazione è la partecipazione alle elezioni. Trovo scandaloso che tutti sembrino voler accettare come placida fatalità il fatto che da 4 o 5 elezioni ci sia il 90% di astensioni in questi quartieri. […] Al momento non sono altro che piccoli soprassalti, e ci si limita a dire «è un piccolo seggio elettorale, non è grave». E invece è grave! Un giorno ci sarà una traduzione politica di tutto ciò, che si esprimerà contro la Repubblica[2].

La storia della banlieue, cui ancora oggi sono dedicati studi e laboratori di ricerca volti a ricostruirne il percorso senza scadere negli stereotipi discriminanti e nella descrizione semplificata veicolati dai mass media[3], è strettamente intrecciata a quella del Partito Comunista Francese, organizzazione politica che queste aree della Francia urbana aveva eletto a proprio simbolo di forza, radicamento e orgoglio, tanto da condividerne le sorti, dalla crescita fino alla decadenza.
Fra questi «territori del comunismo»[4], i dipartimenti attorno a Parigi occupano sicuramente un posto di primo rilievo: oltre al fatto particolare che fosse proprio la cintura periferica della capitale a costituire un bastione del PCF, sta anche nella durevolezza della fedeltà al partito, che qui è rimasta pressoché invariata dagli anni Venti fino al nuovo millennio.
Saint Denis, Bobigny e Montreuil nella Seine-Saint-Denis, Ivry-sur-Seine, Villejuif e Gentilly nella Val-de-Marne, Argentueil nella Val-d’Oise, Nanterre e Gennevilliers nell’Haut-de-Seine, non sono altro che alcuni esempi di questo vasto radicamento, che, pur con alcuni cambiamenti, è rimasto un elemento costante nel panorama politico francese.
Impropriamente definito come «comunismo municipale», questa apparente stabilità della Banlieue rouge ha vissuto, soprattutto negli ultimi anni, conflitti, scontri e contraddizioni che hanno alimentato il mito della sua inemendabile fine[5]; in questo articolo, riprendendo i momenti di svolta e di crisi, proveremo a ricostruirne la storia.

Dalla crescita alla crisi: la muncipalité rouge come modello di governo del territorio e di inquadramento politico.

Premessa: il governo locale come “scelta obbligata” per i partiti comunisti in Europa?

Bogdan Szajkowski, ricercatore di scienze politiche che ha lavorato sulle relazione fra sistemi di governo e comunismo, ci spiega nel suo libro sulle “amministrazioni rosse” Marxist local governements in Western Europe and Japan[6] come l’interesse per il livello locale della politica fu una via d’azione comune a molti partiti comunisti occidentali, sebbene per ragioni differenti fra loro. Due furono le situazioni che imposero ai comunisti europei questa soluzione: da una parte vi poteva essere l’effettiva capacità numerica di queste organizzazioni che, come nel caso del Partito Comunista della Gran Bretagna, si rivelavano essere forze assolutamente minoritarie e quindi non capaci di concorrere su un piano nazionale con i partiti socialisti e socialdemocratici; dall’altra, invece, delle situazioni, come quella della Francia o dell’Italia, in cui gli equilibri internazionali impedivano a dei partiti forti comunque di un consenso di massa l’accesso alla direzione del paese. Furono però solamente i partiti comunisti di questi ultimi due paesi ad aver maturato negli anni la capacità di trasformare il territorio in cui erano apparentemente isolati in un’area dal consenso così radicato ed influente da poter parlare di «contro società». I comuni, le provincie, i dipartimenti o le regioni (a seconda del paese) divennero allora lo spazio in cui i comunisti costruirono e mantennero una grande stabilità, per la gran parte grazie al voto e all’appoggio dei ceti popolari e dei cosiddetti “lavoratori manuali”, ma anche, come vedremo, di impiegati salariati e ceti medi[7].

Banlieue Rouge o Banlieue ordinaire: Il Partito Comunista Francese e la periferia di Parigi nella crisi degli anni Ottanta

Il giornale comunista "Front Rouge" celebra la vittoria alle elezioni comunali di Fresnes negli anni venti

«Piccole Mosca»[8] d’Europa, queste realtà locali ebbero alla loro guida una classe dirigente dai caratteri propri: questi amministratori, spesso di origini operaie, seppero superare i vuoti della loro formazione dimostrando un’intelligenza pratica ed un’esperienza utili per sperimentare una politica attenta tanto ai bisogni del proprio elettorato quanto alle necessità di una gestione corretta – e talvolta anche innovativa – di aree periferiche del paese[9]. Espressione di un incontro fra carica elettiva e militanza all’interno di un partito, tradottosi negli anni nella formazione di un ulteriore ceto politico[10], questi sindaci, consiglieri e presidenti di enti locali assunsero nel tempo un peso sempre più determinante all’interno dei partiti comunisti, tanto da mettere in discussione, come vedremo, la linea generale d’azione delle organizzazioni di provenienza[11].
In un contesto generale europeo in cui i partiti di sinistra vedevano aumentare negli anni il consenso (grazie anche alla maggiore forza guadagnata dalla classe operaia durante i cosiddetti «Trente glorieuses», ovvero gli anni di crescita economica che l’Occidente visse all’indomani della Seconda guerra mondiale), i comunisti, fra i principali beneficiari di questa situazione in quanto in alcuni paesi forza egemone della sinistra e addirittura dell’intera opposizione, tradussero la loro forza nel governo del locale, trovando così anche una possibilità di dimostrare le capacità gestionali accumulate e la propria fedeltà alla democrazia.
Gli anni Ottanta furono per i «territori del comunismo» l’inizio della crisi: la loro stabilità politica venne messa in discussione da una serie di fattori che vanno al di là dell’indebolimento e della caduta del comunismo a livello globale.
Cominciò allora infatti a modificarsi materialmente quella condizione economica e sociale su cui le sinistre europee avevano costruito un vasto consenso di massa e la possibilità di una riforma all’interno del contesto democratico: la deindustrializzazione, la lenta dipartita di quella parte di classe operaia che aveva vissuto una fase di crescita in cui le relazioni sociali all’interno del mondo del lavoro erano effettivamente cambiate, l’apparire al centro della scena pubblica di un nuovo ceto medio, figlio della terziarizzazione dell’economia, con esigenze diverse rispetto alla società del Secondo dopoguerra, la conseguente crisi strutturale del sistema di Welfare State, da cui le sinistre avevano tratto forza, un’ondata migratoria considerata come “invasione” sociale e culturale e ingombrante presenza, furono tutti fattori che cambiarono in maniera determinante l’immagine e l’azione dei comunisti, anche a livello locale[12].

La banlieue rouge: il proletariato rivoluzionario alla conquista del buon vivere.

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All’indomani del congresso di Tours del 1920, quando la maggior parte dei membri alla SFIO (Section Française de l’Internationale Ouvrière, il vecchio partito socialista) votò l’adesione al proclama per la fondazione di una nuova Internazionale lanciato da Lenin nel 1919, la Section Française de l’Internationale Communiste, primo nome del Partito Comunista Francese, profittò per il suo radicamento di una situazione in cui il movimento operaio già disponeva di una forte presenza nelle amministrazioni locali[13].
Dalla prima elezione di una giunta comunale socialista nel 1881, a Commentry nel dipartimento dell’Allier, i socialisti godevano di un vasto consenso a livello locale, i cui bastioni si trovavano nella banlieue parigina, nelle regioni del nord a forte carattere minerario estrattivo e industriale – come ad esempio il Pas-de-Calais –, nella Loira, nel Sud-Est e nelle regioni rurali del Centro della Francia.
Dopo il primo grande successo della scissione comunista nel 1920, molti militanti, e soprattutto molti quadri politici e dirigenti locali, uscirono dal partito in disaccordo con la linea dettata dalla Terza Internazionale e rientrarono presto nella vecchia casa della SFIO. Nonostante questo pesante strappo e le dissidenze che si formarono anche negli anni a venire, le zone che per prime in Francia avevano mostrato una duratura simpatia per il socialismo divennero le aree in cui il consenso al PCF fu più stabile.
Cuore vivo di questa relazione fu la periferia di Parigi: divisa (fino al 1968) nei dipartimenti della Seine e della Seine-et-Oise[14], divenne stabilmente la Banlieue rouge a partire dalle elezioni del 1925, in cui i comunisti confermarono le amministrazioni acquisite nel 1920 e ne conquistarono delle nuove[15].

Questo rapido ma duraturo radicamento necessita di spiegazioni ulteriori rispetto a quelle utilizzate per le zone minerarie o le campagne, dove determinanti furono la forte concentrazione operaia da una parte e dall’altra la lunga tradizione repubblicana ed anticlericale: nell’area di Parigi, sebbene questi elementi furono sicuramente presenti, l’approdo di parte consistente della classe lavoratrice al comunismo è legato a fenomeni di natura propriamente urbana.
Nel corso del XIX secolo la cintura parigina aveva cominciato a caratterizzarsi come una zona squalificata in cui venivano man mano trasferite le attività industriali della capitale, con la conseguenza di diventare un’area di alta concentrazione di popolazione operaia che necessitava di una serie di servizi che i piccoli comuni periferici, stravolti da un’incredibile crescita di popolazione, non avevano. Per far fronte a tali ingenti problematiche e per trovare una soluzione ai persistenti problemi di sudditanza della banlieue nei confronti di Parigi (un esempio chiaro è il permanere fino agli anni Venti del Novecento della pratica dell’octroi, il dazio, imposto dall’amministrazione cittadina, che doveva essere pagato per far entrare le merci all’interno della cerchia muraria), i socialisti compresero di dover intervenire con una nuova politica amministrativa, di cui i consorzi intercomunali e la costruzione di alloggi popolari (in questa fase definiti come Habitations à bon marche HBM, poi nel secondo dopoguerra Habitations à loyer modéré HLM[16]) furono i migliori risultati[17].
I dirigenti comunisti dei dipartimenti della Senna ebbero la scaltrezza e l’intelligenza politica di non gettare via una simile tradizione gestionale. Nei comuni guidati dal PCF la costruzione di alloggi popolari venne considerata una priorità assoluta, tanto da veder divenire i grands ensembles uno dei punti forti del suo radicamento. Se da una parte gli amministratori comunisti erano quasi obbligati ad attuare una politica di forte edificazione dello spazio per la necessità di fornire abitazioni ad una popolazione in costante crescita, dall’altra seppero profittarne, organizzando associazioni di inquilini e comitati che contribuirono a creare un elettorato fedele. Questi comitati, oltre ad essere un tramite importante fra popolazione e comune, furono uno degli strumenti che il partito utilizzò per svolgere la sua funzione «tribunizia» di portavoce delle istanze di base, traducendole in proteste organizzate. Dato l’ampio favore che il PCF riusciva a raccogliere nei grandi caseggiati, i suoi sindaci furono sempre favorevoli alla costruzione di grands ensembles piuttosto che di abitazioni monofamiliari, come i pavillons, che avrebbero potuto allontanare la famiglie operaie da un humus sociale condiviso, e magari essere anche abitate da famiglie dei ceti medi, tradizionalmente più lontani dal partito[18].
In ragione della consistenza politica ed elettorale che la gestione comunista qui ebbe, il PCF fece della banlieue parigina il centro nodale della sua attività e della sua propaganda, tanto da poter essere considerata una buona cartina tornasole dei cambiamenti della sua linea politica. Infatti, negli anni Venti della tattica della «classe contro classe» il comune della cintura parigina fu la base rouge per l’attacco a Parigi cuore dello Stato e del potere – come si può leggere nell’articolo de «L’Humanité» «Paris encerclé par le prolétariat révolutionnaire» in cui si trattano i risultati delle elezioni politiche del 1924 in banlieue[19], per poi diventare, a partire dal secondo dopoguerra, lo specchio della buona amministrazione che conduceva i cittadini e le classi lavoratrici À la conquêt du bonheur, ovvero di una politica comunista che aveva come primaria obiettivo quello di migliorare la qualità della vita dei cittadini[20].

Le colonie di vacanza comunali di Ivry-sur-Seine

Un'immagine delle colonie di vacanza comunali di Ivry-sur-Seine

Sebbene armati di una retorica rivoluzionaria e di una matrice politica assolutamente operaista e classista, gli eletti comunisti godettero, già dagli anni Venti, di un’immagine di amministratori responsabili e divennero presto capaci di produrre una politica locale alla prova della modernità, in grado di catturare anche le simpatie della classe media che andava rivolgendosi ai comuni periferici per trovare una qualità della vita migliore rispetto a quella della capitale.
Nel giugno del 1947 l’XI congresso del PCF tenutosi a Strasburgo sancì in maniera definitiva l’appoggio politico dell’intero partito a questa linea maturata nella pratica; relazionato da Georges Marrane, sindaco del comune della banlieue sud-est Ivry-sur-Seine dal 1925 al 1965, parlamentare comunista e Ministro della Sanità nel governo unitario dell’immediato dopoguerra, dunque personaggio simbolo degli élus communistes della Seine, il rapporto Des réalisateurs au service du peuple venne approvato dal partito: rimarcando i punti forti del lavoro fatto pur fra grandi difficoltà dai sindaci comunisti, il congresso impegnava i suoi quadri e i suoi militanti in un rinnovamento del lavoro nelle istituzioni locali[21].
Gli elementi che costruirono questa considerazione positiva furono diversi e possono essere sintetizzati in alcuni punti forti che marcarono la “differenza” delle giunte comuniste rispetto all’operato dei tradizionali notabili locali: budget e bilancio; servizi per la famiglia, l’infanzia e giovani; la scuola e le attività culturali; la gestione interna del municipio; il sostegno al lavoro con fondi comunali e l’organizzazione di momenti di solidarietà con i lavoratori in lotta[22].
L’attenzione data all’attività locale dava comunque al partito la possibilità di muovere delle pedine anche sul piano nazionale. Sottolineando la qualità e l’importanza delle realizzazioni dei propri comuni all’interno di un generale quadro di restrizioni poste in essere dal potere centrale, metteva in risalto il positivo operato degli eletti comunisti a discapito del governo, che agli occhi dei cittadini diveniva responsabile di non fornire i necessari finanziamenti. Da questo punto poi ne discendeva un altro: se a fronte di oggettive difficoltà i comunisti erano comunque riusciti ad ottenere importanti vittorie, nel momento in cui il partito fosse stato al governo la situazione sarebbe stata addirittura migliore. E allora, anche a livello nazionale doveva imporsi un cambiamento politico[23].

Poche municipalità possono vantare un tale bilancio di sforzi [...]. Le realizzazioni dei comunisti all’interno del sistema marcio e barcollante del capitalismo che tanto investe per la guerra, saranno centuplicate il Giorno in cui i lavoratori saranno al potere[24].

Il costante sguardo sul livello nazionale dimostrava la specificità dell’azione municipale del partito comunista: il lavoro che veniva svolto dai sindaci e dagli eletti a livello locale non aveva una propria “autonomia”, ma doveva rientrare in un quadro d’analisi più generale, maturato in ambito nazionale, a cui le esigenze territoriali dovevano essere subordinate. A differenza di altre organizzazioni della sinistra, in particolare il Partito Socialista Unitario, nell’ottica dei comunisti la conquista di Comuni e la buona amministrazione mai avrebbero potuto rappresentare delle “casematte” occupate verso di un dir si voglia «socialismo municipale», prospettiva sempre rifiutata da un partito che aveva come obiettivo quello della costruzione di una politica centralista di matrice socialista[25].

Per Waldeck L’Huillier, altra figura importante del comunismo in banlieue e testimone della passione amministrativa in quanto storico sindaco di Gennevilliers, è decisamente chiaro a questo proposito che:

L’attività delle amministrazioni comunali comuniste e delle minoranze comunali rappresenta un elemento molto importante nel legame del partito con le masse. Questa deve essere quindi realmente migliorata, tenendo conto delle difficoltà economiche e dell’aggravamento della miseria delle masse lavoratici […]. Il partito deve dirigere il lavoro comunale ad ogni livello, perché non è un settore isolato dell’insieme[26].

Il quartiere Le Luth di Gennevilliers

Il quartiere Le Luth di Gennevilliers

La forte crescita nelle elezioni locali cui il PCF assistette nell’arco di tutto il secondo dopoguerra e soprattutto negli anni che vanno dal 1965 (data del primo accordo con i socialisti per il rilancio di un’azione unitaria della sinistra) al 1977, quando il partito si trovò ad amministrare 8,6 milioni di cittadini, e la consapevolezza che parte di questo successo era legata ai risultati ottenuti sul territorio produssero un cambiamento nella linea d’azione del partito, che con difficoltà venne vissuta dalla direzione nazionale: per la prima volta difatti l’attività specifica nei comuni cominciò a coprire nell’attività delle federazioni locali del PCF uno spazio maggiore rispetto a quella nazionale.
Alla base di tale trasformazione ci furono due fattori: il già citato voto dei ceti medi, che avrebbero continuato a riconfermare la loro fiducia alla giunta sulla base di risultati riscontrabili nella realtà quotidiana e non sull’onda di un’adesione ideologica, e il crescente predominio di quello che possiamo chiamare «comunismo popolare» rispetto alla linea sostenuta dalla direzione centrale. Infatti, se il partito continuava ad esprimere la sua opinione e la linea politica sulla stampa e sui vari spazi di dibattito teorico, il «comunismo popolare» era una sorta di incontro fra propaganda rivolta all’uomo comune e passione politica, che si presentava nella forma di un particolare sincretismo ideologico composto di bisogni quotidiani, attitudine protestaria, orgoglio nell’appartenere alla classe operaia e repubblicanesimo. In particolare per i militanti e simpatizzanti comunisti della banlieue, che su questa base costruivano la loro appartenenza politica, le politiche condotte dal Comune, dal sindaco e (sul piano nazionale) l’immagine del segretario del partito erano la concretizzazione del «comunismo»[27].
Per riuscire a mantenere la stabilità di questo rapporto fra amministrazioni e popolazioni, le federazioni locali del partito cominciarono anche a seguire con più attenzione gli umori della propria base e del proprio elettorato senza la preoccupazione di filtrarli, come nel caso della questione dell’immigrazione[28].
Simbolo di questo cambiamento fu l’attività del sindaco, che guadagnò un’inedita centralità. In precedenza, difatti, era la sezione del partito che occupava il primo posto nella vita del comune, e il sindaco, pur nella sua importanza, doveva subordinare le sue decisioni a quelle di un gruppo composto dal segretario di sezione, il tesoriere del partito, il segretario della locale sezione sindacale e un rappresentante della Federazione. L’operato del sindaco era certo importante per costruire un percorso di realizzazione politica, ma nell’ottica comunista erano pur sempre le cellule e le sezioni del partito che avevano il contatto diretto con le masse, di cui conoscevano i bisogni più diretti e che quindi dovevano aiutare l’eletto nel costruire una linea che favorisse un più generale inquadramento politico della cittadinanza.
Rappresentante di questa prima generazione, quella che conquistò le prime giunte comunali negli anni Venti-Trenta e alla cui guida rimase fino alla metà degli anni Sessanta, è sempre Georges Marrane che nel 1950, venticinquennale della sua prima elezione, colse l’occasione per dimostrare il suo debito morale nei confronti dell’organizzazione:

Bisogna dire la verità, e cioè che abbiamo attinto nell’avanguardia della classe operaia, nel Partito comunista, i principi politici che ci hanno permesso di seguire la via più giusta, nelle circostanze più difficili. È il Partito comunista che ci ha formato, che ci ha fatto gli operai che siamo, fieri delle nostre origini, dei militanti collaudati, fermi e disinteressati. È il partito che ha fatto di noi dei propagandisti, degli amministratori, degli organizzatori. È la fedeltà al Partito comunista, l’applicazione a delle risoluzioni che ci permetterà di fare più e meglio nell’avvenire, d’assicurare il mantenimento della pace e d’instaurare il socialismo nella nostra patria[29].

La generazione di sindaci che invece guidò la crescita elettorale del partito, aveva dei caratteri differenti rispetto a quella che l’aveva preceduta e meglio rappresentava i cambiamenti avuti anche fra l’elettorato. Seppur senza generalizzare, questa leva di eletti aveva legami meno diretti con il partito, la sua storia e la tradizionale base operaia: di origine impiegatizia, aveva una qualificazione più alta e si era avvicinata alla politica già in maturità e più per interesse nella gestione della “cosa pubblica” che per una vera e propria motivazione ideologica. In nome di questa specificità e dello spazio guadagnato dai sindaci e dagli amministratori locali nella crescita degli anni Settanta, il PCF si trovò però costretto a concedere maggiore autonomia ai suoi eletti, sebbene la fondazione dell’Association des élus communistes et républicaines rappresentasse un tentativo fatto dal centro del partito per arginare questo processo di allontanamento[30].
Nonostante le elezioni del 1977 apparentemente sembrassero dar ragione al nuovo corso, i primi anni Ottanta diedero i primi segnali della crisi della banlieue rouge, come abbiamo detto, solo in parte legata alla più generale difficoltà del mondo comunista e del PCF, in particolare a seguito prima della partecipazione all’Union de gauche e alla successiva rottura degli accordi unitari[31]. Due furono gli elementi fondamentali del deterioramento di questa politica. Il percorso di autonomizzazione dell’amministrazione, seppur più lento e meno determinante rispetto a quello vissuto dall’Italia, metteva i comuni di fronte a più importanti responsabilità che, in un contesto che vedeva la partecipazione del PCF al primo governo dell’era Mitterrand, minavano la tradizionale funzione tribunizia del partito e ponevano gli eletti nella posizione di dover assumere le proprie responsabilità invece che scaricare le colpe sul governo centrale. Dall’altra le periferie stavano conoscendo un profondo cambiamento sociale: la deindustrializzazione stava portando in questi territori lo spettro della disoccupazione di massa, soprattutto fra quell’ampia fetta di popolazione, in particolare di origine straniera, che poteva riconoscersi nella figura sociale dell‘OS, l’operaio semplice, gradino più basso del mondo produttivo, che più di ogni altro pagava l’assenza di lavoro; la generazione di lavoratori più anziani che aveva potuto usufruire dei benefici tratti dall’andare in pensione cominciava a spostarsi dai grands ensembles per cercare delle sistemazioni migliori in abitazioni pavillionnaires, o comunque verso aree di maggior respiro, lasciando appartamenti in HLM a nuovi inquilini che poco si occupavano della politica locale – immigrati che non godevano del diritto di voto e lavoratori che consideravano questi comuni come delle aree dormitorio mentre passavano parte importante della loro giornata a Parigi[32].

Georges Marrane, sindaco di Ivry-sur-Seine (1925-1965)

Georges Marrane, sindaco di Ivry-sur-Seine (1925-1965)

Nell’arco di meno di quarant’anni il PCF si trovava quindi a gestire una situazione apparentemente differente. L’emergere di nuove tematiche, come la deindustrializzazione – che allontanava di molto il mito, da sempre rincorso dalla sinistra, ed in parte anche dalla destra, della piena occupazione –, la ricerca di una qualità della vita che non fosse limitata ad un’abitazione dignitosa e ai servizi base per il mantenimento della famiglia, e di conseguenza la scomparsa di una socialità locale (che, grazie alla rappresentazione di una vita ideale basata sul lavoro e valori semplici, aveva cementificato una comunità attorno al partito comunista), coglieva una classe politica impreparata ad affrontarle. I dirigenti comunisti locali, in nome dell’accrescere delle loro responsabilità di amministratori locali, avevano cominciato ad assomigliare più a dei funzionari che a dei militanti di partito, con il risultato di impoverire un dibattito politico oramai sempre più schiacciato sulle esigenze quotidiane della popolazione e che quindi non poteva essere all’altezza delle nuove sfide che si presentavano[33].
Il PCF fu quindi nella condizione di dover rincorrere questi cambiamenti, cercando di non farsi sorpassare dai suoi diretti avversari politici: il Parti Socialiste di Mitterrand, capace di interpretare meglio le funzioni di partito egemone della sinistra, avendo accettato il gioco elettorale del presidenzialismo e intercettato i sentimenti di uno schieramento politico meno “operaista”; ma anche il Front National, che sui drammi della montante disoccupazione e del degrado dei quartieri periferici si dimostrava in grado di fare leva sulla sfiducia popolare verso le istituzioni e i sentimenti “di pancia” del cittadino medio[34].
Prisma di lettura possibile per questa situazione fu l’irrompere, anche a livello locale, della questione dell’immigrazione, attorno alla quale venne sviluppandosi un dibattito declinato sempre più come questione etnica piuttosto che in quella tradizionale dei «lavoratori stranieri». Nel 1974, anno dell’elezione a presidente della Repubblica del gaullista Giscard d’Estaing, la Francia per la prima volta dagli anni Trenta decide di sospendere l’afflusso di lavoratori stranieri nel paese, affermando di difendere in questa maniera sia il lavoro nazionale sia la vita dei migranti che se fossero stati ammessi sarebbero stati condannati alla disoccupazione. La sinistra, che all’epoca si era opposta a questo discorso definendolo razzista, una volta al governo, dopo un’iniziale apertura mostrata in materia (soprattutto da Mitterrand, che promosse una vasta campagna di regolarizzazione di sans-papier), proseguì nella linea dettata dai precedenti governi.
Nella banlieue, dove gli stranieri rappresentavano anche il 10-20% della popolazione locale e gli effetti della deindutrializzazione erano più acuti per l’alto numero di lavoratori legati all’industria, gli esiti di questa linea politica furono a dir poco devastanti. Nei quartieri popolari, il PCF si fece promotore di battaglie per la sicurezza e contro lo spaccio, nella speranza di dar risposta alle nuove inquietudini dei cittadini: obiettivo, più o meno celato, di questa battaglia erano gli immigrati che affollavano le cité. Fra il 1978 e il 1981, nello stupore e nello sdegno delle associazioni per i diritti civili tradizionalmente vicine al partito, come la Ligue droit de l’homme (LIDH) o il Mouvement contre le racisme e pour l’amitié entre les peuples (MRAP), le amministrazioni guidate dai comunisti lanciarono una vasta campagna per un’«equa ripartizione geografica» degli immigrati. Proposta questa che già negli anni Sessanta i sindaci comunisti avevano iniziato a sostenere attorno alla questione delle bidonville e della necessità di alloggiare chi le abitava dopo gli sfratti, lamentando il fatto che nei loro comuni venissero con scientificità fatti convergere gli immigrati per evitare che si installassero in quelli vicini al governo.
Luogo simbolo di questa situazione di xenofobia malcelata fu il comune della Val-de-Marne Vitry-sur-Seine, in cui il sindaco comunista Paul Mercieca, il 24 dicembre del 1980, guidò personalmente un bulldozer contro un foyer di lavoratori del Mali, in precedenza alloggiati nel comune di Saint-Maur (giunta UDF, partito di centro-destra vicino a Giscard d’Estaing), al grido di «è stata superata la soglia di tolleranza»[35]. Quest’azione, sebbene presto sconfessata (almeno in parte) dai vertici del PCF che pur la vollero, venne sostenuta a viva forza dai sindaci comunisti della Val-de-Marne, che difesero la battaglia di Mercieca attribuendole, anche qui, un valore umanitario.
Un simile copione si ripeté l’anno successivo a Montigny-lès-Cormeilles nella Val-d’Oise. Il sindaco Robert Hué, successore di Georges Marchais alla segreteria del PCF nel 1994, organizzò una manifestazione di fronte al domicilio di un giovane marocchino accusato di vendere hashish[36].
Sebbene la vicenda di Vitry e di Montigny abbiano assunto dei toni spettacolarizzanti, questo tipo di atteggiamento nei confronti della questione immigrati è leggibile già negli anni Sessanta nell’attività comunale comunista. Se prendiamo un comune di storiche tradizioni comuniste come Gennevilliers, riusciamo a cogliere come i servizi che avevano garantito la crescita del consenso del PCF e la sua immagine di partito del buongoverno, furono i punti in cui più debole si dimostrò invece la struttura[37].

Conclusioni: quale avvenire per la banlieue rouge?

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L’idea di modernizzare la società per mezzo dell’urbano rimanda all’ultimo dopoguerra. La Francia era ancora un paese a forte dominante rurale. La città evocava l’affollamento, la mancanza di comodità ed igiene. Per attirare i lavoratori agricoli nelle città al fine di sostenere il processo di industrializzazione fordista dei cosiddetti trenta gloriosi, l’amministrazione statale decise la messa in opera di un grande progetto di anti-città; dei quartieri che in altre parole non comportassero i rischi delle città, liberi dal problema dell’affollamento e dal rischio della violenza urbana; spazi che permettessero alla classe operaia di vivere una vita famigliare corretta in una condizione di igiene e di comfort [...]. Più complessivamente, quella fase della modernizzazione si presenta come un mezzo di integrazione e quindi di miglior utilizzo della classe operaia nella fase di sviluppo fordista di quegli anni. La casa serve al lavoro, questa è la filosofia. Si tratta di un sistema che all’inizio ha funzionato, l’abbandono delle campagne avveniva contestualmente alla trasformazione terziaria dei centri urbani: i francesi avevano accettato quella nuova forma dell’urbano [...][38].

Il 1981 è stato un anno del tutto particolare. Il 10 maggio di quell’anno venne nominato Presidente della Repubblica, per la prima volta dal 1947, un socialista: François Mitterrand. Un avvenimento questo, atteso con ansia da una parte importante della popolazione francese e soprattutto dai partiti della sinistra, che dopo la sconfitta della coalizione unitaria nel 1965 e nel 1974, finalmente salivano alla guida del paese con un programma politico molto ambizioso.
Ma al 1981 risalgono anche i primi segni della crisi delle banlieues: nell’agglomerato di Lione, dipartimento della Rhône, prima a Minguettes, poi a Vénissieux e infine a Villeurbanne et a Vaulx-en-Velin, scoppiarono in luglio violente rivolte che portarono i giovani delle periferie a scontrarsi con la polizia.
La Francia scoprì così la crisi che da anni stavano attraversando questi territori e la marginalità cui erano condannati i suoi abitanti, soprattutto i giovani di origine straniera, o, detta alla francese, issus de l’immigration, che dei moti erano stati protagonisti.
I primi mesi del governo dell’Union de Gauche furono un fiorire di azioni politiche e di leggi volte al recupero delle periferie: sulla scorta di un’attenzione già viva grazie alla designazione di alcune aree come Zones Urbaines Sensibles, ovvero quartieri sensibili considerati come tali per la deficienza di servizi pubblici e tassi di occupazione bassi, venne inaugurata la grande stagione della politique de la ville. Nata come progettualità statale in favore dello sviluppo dei quartieri più poveri, questa divenne poi politica di sviluppo sociale e urbano generale e solo canale per un intervento istituzionale sul locale. Varata dal governo Mauroy, tale campagna era composta di quattro dispositivi di intervento in corrispondenza dei diversi ambiti individuati come prioritari: le missioni locali per l’occupazione giovanile; le Zones d’Education Prioritaire (ZEP); la Commission nationale pour le développement social des quartiers (CNDSQ), per combattere la ghetizzazione dei quartieri; il Conseil national de prévention de la délinquance, commissione di sindaci che cercò di sviluppare una riflessione sulla sicurezza che non fosse di repressione, ma anche di prevenzione e solidarietà.
La CNDSQ aveva fra i suoi compiti anche quello di risolvere le questioni legate all’edilizia sociale, problematica forte per queste aree in cui la maggior parte delle abitazioni era costituita da HLM. Il rapporto che la commissione produsse, Ensemble refaire la ville, rimase un punto di riferimento nell’azione sui territori per molti anni, nonostante già dal titolo marcasse la consapevolezza di un fallimento della politica di edilizia pubblica francese dei Trenta gloriosi[39].

In un quadro sociale profondamente mutato, gli effetti della promiscuità sociale sono apparsi progressivamente intollerabili agli occhi di quei settori della classe media che risiedevano in banlieue. Inizia così la fase dello sviluppo peri-urbano e del mito della casa individuale nel verde. Tutto questo mentre si dava vita al meccanismo di relegazione, con l’assegnazione degli appartamenti improvvisamente resi liberi a nuclei familiari d’origine immigrata, prevalentemente provenienti dal Maghreb, che potevano godere delle opportunità, anche economiche dei dispositivi di raggruppamento familiare. Questo in realtà, ha permesso di salvare la vivibilità dei quartieri di banlieue più invivibili, ma al prezzo di un confinamento delle componenti più deboli della popolazione in luoghi svantaggiati e lontani – in senso sia spaziale sia sociale- dal mercato del lavoro[40].

La politique de la ville costruita sull’ondata dell’urgenza e poi mantenuta nel corso degli anni con la speranza di recuperare queste aree periferiche della Repubblica, portava in sé i limiti della sua azione e dei suoi obiettivi. Avendo avuto la pretesa di sintetizzare in un’unica azione e in un disegno generale su larga scala (senza analisi specifiche per ciascun territorio) una politica sociale ed una propriamente urbana, le istituzioni centrali non hanno fatto altro che stigmatizzare ancore di più le aree di intervento, svicolando inoltre la complessità di situazioni in cui il disagio e la conflittualità sociale erano passate dai luoghi di lavoro a quelli dell’abitare. Ancora una volta sono le parole del socialista Dilain a confermarlo:

Le urgenze e le priorità non sono le stesse nei vari territori […]. La politica della città ha dato molto. I differenti ministri hanno tutti avuto la volontà sincera di fare qualcosa. È stato comunque poco. Perché? Prima di tutto perché spesso si sono volute risolvere le conseguenze senza soffermarsi sulle cause. Soprattutto si è detto «Inventerò uno strumento geniale che regolerà i problemi di ogni quartiere». Questa la chiamo la dittatura dello strumento, è il contrario di quel che bisogna fare[41]!

Georges Marchais, segretario PCF e François Mitterrand, PS

Georges Marchais, segretario PCF e François Mitterrand, PS

Le parole del vecchio primo cittadino di Clichy sono testimoni di questa profonda contraddizione: la politique de la ville, che pur era stata lanciata per integrare e promuovere la cittadinanza sociale dei giovani che avevano animato le prime rivolte, aveva di fatto scansato la centrale problematica del disagio e della marginalità, in quanto avrebbe potuto sottolineare l’esistenza di un sostanziale problema della Repubblica nei confronti di una parte dei suoi cittadini[42].
Sottesa a questa prima questione si trovava anche quella, non meno importante dei rapporti fra centro e periferia: i comuni e gli enti locali furono ancora una volta messi in una posizione di sudditanza nei confronti delle linee guida dettate dalle istituzioni centrali, pur essendo la crisi esplosa su quei territori.
La consapevolezza degli invalicabili limiti dell’azione da parte degli enti locali ci conduce anche a mettere nella giusta luce l’azione territoriale del PCF, che proprio in quegli anni cominciò a intravedere i segnali di una crisi inarrestabile. Per quanto il partito si sia trovato alla guida di giunte comunali che godevano di un consenso abbastanza stabile e duraturo da permettere politiche originali, la sua azione, sicuramente in alcuni ambiti innovativa, non riuscì però mai a smarcarsi veramente da quello che potevano fare comuni di altri colori.
E allora quale è stato il carattere peculiare di queste “piccole Mosca”? Forse quello di una maggiore vicinanza fra eletti e popolazione? Anche in questo senso va utilizzato uno sguardo più critico e disincantato. Nell’arco degli anni il PCF fu accusato da opposizioni locali e stampa nazionale di praticare nei suoi comuni un forte controllo politico e di praticare un inquadramento della popolazione di tipo “sovietico”, che passava fra l’altro per un uso clientelare delle risorse comunali. Esempi ricorrenti erano la gestione del bollettino ufficiale del comune cui l’opposizione non aveva accesso, la presenza di esponenti del comitato centrale o delle federazioni del partito ad eventi pubblici, come inaugurazioni di scuole o strade, e naturalmente l’alta percentuale di militanti comunisti fra i dipendenti comunali e i beneficiari delle case popolari[43].
Senza scadere nella leggenda metropolitana della portinaia comunista dell’HLM che annota le abitudini degli inquilini per poi riferirle alla sezione, va precisato il fatto, che il sostegno della popolazione all’azione locale del PCF non fu solo politico: oltre agli elementi di cui abbiamo parlato nell’articolo e la possibilità (per ora non suffragata da alcuna prova documentaristica specifica) che il partito comunista abbia praticato nella sua gestione un sistema clientelare e negli anni abbia formato un altro notabilato, bisogna sottolineare il fatto che l’adesione di molti cittadini alle scelte dell’organizzazione si legava anche alla volontà di essere partecipi di un clima umano e sociale diffuso, cosa che portava la famiglia media di periferia, magari residente in un palazzo in cui la maggior parte degli abitanti era – o si diceva – comunista, ad avere almeno uno dei suoi membri tesserato al partito e poi successivamente a cambiare opinione.
La crisi della banlieue ha investito un partito incapace di affrontare il cambiamento della società francese e la trasformazione dei suoi territori. Sebbene fino agli anni Novanta il PCF abbia goduto di percentuali di voto alle elezioni locali invidiabili, la trasmigrazione di voti verso altri partiti (fra cui sicuramente quella più nota del bacino operaio verso il Front National assume i caratteri più inquietanti) e l’accrescere dell’astensionismo hanno rimesso in gioco, dopo quasi sessant’anni, la vita politica di queste aree, senza però dare esiti uniformi.
La Seine-Saint-Denis costituisce in questa analisi un valido esempio. Da una parte possiamo trovare un comune come Saint-Denis, che pur avendo riconfermato la fiducia al partito comunista, ha un sindaco come Didier Paillard che sta investendo in una politica di partecipazione per recuperare consenso ed essere più vicino agli umori del suo elettorato. Ma dall’altra ci sono anche storiche roccaforti che stanno cambiando colore: Montreuil, comunista dal 1935, nel 2008 ha eletto la sua prima sindaca verde, Dominique Voynet, lasciando intravedere una possibile strada di innovazione della cintura parigina[44].
Nella campagna presidenziale di questo 2012 le periferie sono il grande assente del dibattito politico, sebbene siano aree del paese in cui si trovano tanto le grosse contraddizioni quanto le sperimentazioni sociali più interessanti. Si spera solo che la banlieue non si riaffaccino sulla scena pubblica solo per un’altra macchina bruciata.

[Bibliografia]

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Note   (↵ returns to text)
  1. La questione delle banlieue è stata a vario modo analizzata, con intenti e risultati variabili a seconda degli obiettivi dell’autore. Non essendo nello specifico questo l’aspetto principale dell’articolo si segnalano comunque alcuni testi in lingua italiana utili ad orientarsi nell’argomento. Cfr. Hugues Lagrange e Marco Oberti (a cura di), La rivolta delle periferie. Precarietà urbana e protesta giovanile: il caso francese, Mondadori, Milano, 2006; Guido Caldiron, Banlieue. Vita e rivolta nelle periferie della metropoli, Manifestolibri, Roma, 2005.↵
  2. Marina Bellot e Sylvain Mouillard, «Les émeutes, c’est le moins grave qui puisse arriver». Intervista a Claude Dilain, in «Megalopolis», n°7, primavera 2012, pp. 50-51, traduzione nostra, cfr. il testo originale.↵
  3. In questo senso va il lavoro svolto dal Centre d’Histoire Sociale du XXéme siécle dell’Università Paris 1, che negli anni si è costitutito come uno dei più qualificati centri di studio in materia di storia del movimento operaio. La sua direttrice Annie Fourcaut, esperta riconosciuta di storia delle periferie, ha qui tenuto diversi seminari dedicati alla banlieue, da cui sono state partorite diverse opere di orientamento e di discussione sull’argomento. Cfr. Annie Fourcaut (a cura di), Un siècle de banlieue parisienne, 1859-1964. Guide de recherche, L’Hartmann, Parigi, 1988; Annie Fourcaut, Emmanuel Bellanger, Mathieu Flonneau (a cura di), Paris-banlieues. Conflicts et solidarités: historiographie, anthologie, chronologie, 1788-2006, Créaphis, Grâne, 2007.↵
  4. Questa definizione, particolarmente riuscita, è stata tratta dal titolo delle giornate di studi Les territoires du communisme, élus locaux, politiques publiques et sociabilité militante, organizzate a Parigi nel dicembre del 2009 da Emmanuel Bellanger e Julian Mischi che aveva come obiettivo quello di proporre uno stato dell’arte sugli studi del radicamento territoriale del comunismo e sulle possibilità di studio che uscissero dalla storia politica per coinvolgere anche la storia sociale, quella culturale e quella urbana ; gli atti non sono ancora stati pubblicati, ma alcuni interventi sono scaricabili al sito del CHS http://chs.univ-paris1.fr/ consultato il 5 marzo 2012.↵
  5. Cfr. Philippe Subra, Île-de-France : la fin de la banlieue rouge ,«Hérodote», N°113, 2004, pp. 14-27; disponibile anche al sito http://www.cairn.info/revue-herodote-2004-2-page-14.htm, consultato il 5 marzo 2012.↵
  6. Bogdan Szajkowsi (a cura di), Marxist local government in Western Europe and Japan, Frances Pinter, Londra, 1986.↵
  7. Bogdan Szajkowsi (a cura di), Marxist local government in Western Europe and Japan, Frances Pinter, Londra, 1986.↵
  8. Bogdan Szajkowsi (a cura di), Marxist local government in Western Europe and Japan, Frances Pinter, Londra, 1986.↵
  9. Cfr. Claude Pennetier, Les maires de la banlieue rouge: un approche prosopographique, in Michel Dreyfus, Claude Pennetier e Nathalie Viet-Depaule (a cura di), La part des militants. Biographie et mouvement ouvrier: Autour du Maitron, Dictionnaire biographique du mouvement ouvrier français, Les Editions de L’Atelier, Parigi, 1996, pp. 81-89.↵
  10. Cfr. Fausto Anderlini, Terra Rossa. Comunismo ideale e socialdemocrazia reale, Bologne, Istituto Gramsci Emilia-Romagna, 1993.↵
  11. Cfr. Donald L. M. Blackmer e Sidney Tarrow (a cura di), Il comunismo in Italia e Francia, ETAS, Milano, 1976 (edizione originale, Communism in Italy and France, University press,Princenton,1976), pp. 1-14.↵
  12. Cfr. Donald Sasson, Cento anni di socialismo. La sinistra nell’Europa occidentale del Ventesimo secolo, Editori Riuniti, Roma,1997, pp. 133-214.↵
  13. Per la storia del PCF si fa riferimento a Stéphane Courtois e Marc Lazar, Histoire du Parti communiste français, Presses universitaires de France, Parigi,1995. In italiano è purtroppo disponibile solo un testo oramai datato (e decisamente partigiano ) del dirigente comunista napoletano Loris Gallico, Storia del Partito comunista francese, Teti, Milano, 1973.↵
  14. Nel 1968 si procedette ad uno scorporamento amministrativo della Seine e della Seine-et-Oise, da cui nacquero i dipartimenti di: Parigi, Seine-Saint-Denis, Val-de-Marne, Hauts-de-Seine.↵
  15. Cfr. François Platone, L’implantation municipale du Parti communiste français, Centre d’étude de la vie politique française, Parigi, 1980, pp. 1-25; Jacques Girault (a cura di), Sur l’implantation du Parti communiste français dans l’entre-deux-guerres, Éditions sociales, Parigi,1977.↵
  16. Cfr. Jean-Paule Flamand, Loger le peuple. Essai sur l’histoire du logement social en France, Edition La Découverte, Parigi, 1989; Jean-Marc Stébé, Le logement social en France, Presses Universitaires de France, Parigi, 2011.↵
  17. Cfr. A. Fourcaut, E. Bellanger e M. Flonneau (a cura di), Paris-banlieues, cit.; uno dei protagonisti di questa fase fu sicuramente il socialista Henri Sellier: sindaco di Surnes (Seine) dal 1919 al 1941, senatore dal 1935 al 1943, ministro della Sanità con il Fronte Popolare, fu igienista e ideatore delle cité-jardin; cfr. AAVV, La Banlieue oasis. Henri Sellier et les cités-jardins (1900-1940), Presses universitaire de Vincennes, Saint Denis, 1987.↵
  18. Cfr. F. Platone, L’implantation municipale du Parti communiste français, Centre d’étude de la vie politique française, Parigi, 1980, pp. 4-12.↵
  19. Paul Vaillant-Couturier, « Paris encerclé par le prolétariat révolutionnaire », L’Humanité du 13 mai 1924, p. 1.↵
  20. À la conquêt du bonheur è il titolo di un filmato di propaganda per le elezioni amministrative del 1947 realizzato da Marc Maurette e prodotto dal PCF, che aveva come obiettivo quello di mettere in luce le conquiste fatte dai sindaci comunisti nei due anni di ricostruzione dalla Liberazione. Cfr. Tangui Perron, Voilà les cités laborieuses à la porte du bonheur. Le parti communistes français et les films municipaux d’octobre 1947, in Jacques Girault (a cura di ), Des communistes (années 1920-années 1960), Publications de la Sorbonne, Parigi, 2002, pp. 37-46.↵
  21. Georges Marrane, Des réalisateurs au service du peuple. Rapport présenté par Georges Marrane [au] XI congrès du Parti Communiste Français, Strasburg 25-26-27-28 Juin 1947, Editions du Parti Communiste Français, Parigi, 1947.↵
  22. Cfr. Jean Lojkine e Nathalie Viet-Depaule, Classe ouvrière, société locale et municipalité en région parisienne. Éléments pour une analyse régionale et une approche monographique: le cas d’Ivry-sur-Seine, Centre d’études des mouvements sociaux, Parigi, 1984; Anita Jousseres, Travail municipal et rapports à la population: Ivry-sur-Seine 1977-1985, Centre d’études des mouvements sociaux, Parigi, 1985.↵
  23. Cfr. Emmanuel Hoffmann (con la direzione di Jacques Girault e Antoine Prost), L’école primaire à Ivry-sur-Seine, 1944-1968, Tesi di dottorato, Università Panthéon-Sorbonne di Parigi, 1992, pp. 68-69.↵
  24. Georges Marrane, 25 années de mandat municipal au service de la population laborieuse et de la paix, in « Le Travailleur», 30 settembre 1950, traduzione nostra, cfr. il testo originale.↵
  25. Cfr. Jacques Girault e Emmanuel Bellanger (a cura di), Villes de banlieues. Personnel, élus locaux et politiques urbaines en banlieue parisienne au XXe siècle, Paris, Creaphis, 2008, pp. 39-46.↵
  26. Citazione tratta da E. Hoffmann (con la direzione di J. Girault e A. Prost), L’école primaire à Ivry-sur-Seine, 1944-1968, op. cit., p. 81, traduzione nostra, cfr. il testo originale.↵
  27. Cfr. D. Blackmer e S. Tarrow (a cura di), Il comunismo in Italia e Francia, op. cit., pp. 88-94.↵
  28. Cfr. Jean-Paul Brunet, Immigration, vie politique et populisme en banlieue parisienne (fin XIXe-XXe siècles), L’Harmattan, Parigi, 1995.↵
  29. Georges Marrane, 25 années de travail municipal, in «Bulletin Municipal Officiel», giugno 1950, p. 9, traduzione nostra, cfr. il testo originale.↵
  30. Michel Dreyfus, PCF, crises et dissidencess. De 1920 à nos jours, Editions complexe, Bruxelles, 1990, pp. 223-229.↵
  31. Basata sul Programme commun firmato dal Partito Comunista, dal Partito Socialista e i Radicali di sinistra nel 1972 a seguito di difficili e lunghe trattative, l’Union de Gauche fu una grande conquista della sinistra francese e condusse, dopo un’ulteriore rottura nel 1978, François Mitterrand ad essere il primo socialista Presidente della Repubblica con il sistema presidenziale. L’idea di un’unione della sinistra veniva preparata già da tempo, anche se, dopo il sostegno dei comunisti allo stesso Mitterrand nel 1965, era presto fallita. Il PCF sperava di mantenere la sua posizione di maggioranza all’interno della coalizione, ma già alle elezioni del 1981 vide il suo risultato calare. Nel 1984 i comunisti abbandonarono l’unione rifiutando di partecipare al governo Fabius, designato da Mitterrand come successore di Pierre Mauroy, sperando di non uscire da quest’esperienza troppo screditati. Negli anni successivi il PCF riprese una linea politica molto dura, fortemente classista , in cui aveva posto anche un certo riavvicinamento all’URSS. Cfr. S. Courtois e M. Lazar, Histoire du Parti communiste français, op. cit., pp. 345-407; D. Sasson, Cento anni di socialismo, op. cit., pp. 618-662.↵
  32. Julien Frugere (sous la direction de Jacques Marseille et Patrick Eveno), De la banlieue rouge au XXIème arrondissement ? Histoire économique et sociale d’une commune de banlieue rouge de 1945 à nos jours : Ivry-sur-Seine, Mémoire de maîtrise en histoire économique et sociale, Paris, Université Pantheon-Sorbonne, 2003.↵
  33. Una prima ed interessante analisi su questa trasformazione degli eletti comunisti venne prodotta dall’americano Tarrow, di cui abbiamo già citato l’importante saggio sulla politica comunista, che nel corso degli anni Settanta svolsero un’intensa attività di inchiesta sulle amministrazioni locali in Francia ed Italia. A quasi quarant’anni di distanza le riflessioni prodotte dai due americani e dal loro team di ricerca possono mostrare anche alcuni punti di ingenuità, ma in ogni caso non perdono la loro capacità di spiegare al lettore le importanti differenze esistenti fra i sistemi statali e politici di Francia ed Italia. Sidney Tarrow, Between center and periphery : grassroots politicians in Italy and France, Yale university press, Londra, 1977.↵
  34. Gérard Noiriel, Immigration, antisémitisme et racisme en France(XIXème-XXème siècle). Discours Publics, humiliations privées, Fayard, Parigi, 2007, pp. 579-604; Centre international de recherches sur l’anarchisme, La résistible ascension de l’extrème droite à Marseille (actes du colloque organisé par le Centre international de recherche sur l’anarchisme de Marseille, octobre 1987, Marseille), Lione, 1987.↵
  35. Yvan Gastaut, L’immigration et l’opinion en France sous la V République, Seuil, Parigi, 2000, pp. 236-251.↵
  36. Étienne Balibar, Le frontiere della democrazia, Manifestolibri, Roma, 2002.↵
  37. Olivier Masclet, Une municipalité communiste face à l’immigration algérienne et marocaine. Gennevilliers, 1950-1972, «Genèses», N°45, dicembre 2001, pp.150-163; Olivier Masclet, La gauche et les cités: enquête sur un rendez-vous manqué, La Dispute, Parigi, 2003.↵
  38. Alessandro Coppola, Le affinità esclusive della metropoli. Intervista a Jacques Donzelot, in http://www.centroriformastato.it/crs/Testi/interviste/donzelot.html, ultima visita il 25/03/2012.↵
  39. Massimo Bricocoli, Francia. La città come escamotage, in Paola Briata, Massimo Bricocoli e Carla Tedesco (a cura di), Città in periferia. Politiche urbane e progetti locali in Francia, Gran Bretagna e Italia, Carocci editore, Bologna, 2009, pp.19-43.↵
  40. A. Coppola, Le affinità esclusive della metropoli. Intervista a Jacques Donzelot, op. cit.↵
  41. M. Bellot e S. Mouillard, «Les émeutes, c’est le moins grave qui puisse arriver». Intervista a Claude Dilain, op. cit., p. 51, traduzione nostra, cfr. il testo originale.↵
  42. M. Bricocoli, Francia. La città come escamotage, op. cit., pp. 26-44.↵
  43. Sotto questa luce va anche letto uno dei lavori del giornalista Jean Montaldo, che comunque era animato da una certo pregiudizio nei confronti del PCF. Jean Montaldo, La France communiste, A. Michel, Parigi, 1977.↵
  44. Cfr. Dossier: banlieue rouge, banlieues verts in http://ecorev.org/spip.php?rubrique61 , ultima visualizzazione 21 marzo 2012.↵
    • AAVV, La Banlieue oasis. Henri Sellier et les cités-jardins (1900-1940), Presses universitaire de Vincennes, Saint Denis, 1987.
    • AAVV, Dossier: banlieue rouge, banlieues verts in http://ecorev.org/spip.php?rubrique61 , ultima visualizzazione 21 marzo 2012.
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    • Étienne Balibar, Le frontiere della democrazia, Manifestolibri, Roma, 2002.
    • Marina Bellot e Sylvain Mouillard, «Les émeutes, c’est le moins grave qui puisse arriver». Interview Claude Dilain, in «Megalopolis», n°7, primavera 2012.
    • Donald L. M. Blackmer e Sidney Tarrow (a cura di), Il comunismo in Italia e Francia, ETAS, Milano, 1976 (edizione originale, Communism in Italy and France, University press, Princenton,1976).
    • Massimo Bricocoli, Francia. La città come escamotage, in Paola Briata, Massimo Bricocoli e Carla Tedesco (a cura di), Città in periferia. Politiche urbane e progetti locali in Francia, Gran Bretagna e Italia, Carocci editore, Bologna, 2009.
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    • Alessandro Coppola, Le affinità esclusive della metropoli. Intervista a Jacques Donzelot, in http://www.centroriformastato.it/crs/Testi/interviste/donzelot.html, ultima visita il 25/03/2012.
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