La mia adolescenza è stata davvero strana, un po' per varie cose che non sto qui a dirvi e un po' perché, mi duole ammettere, ho fatto di tutto per farla diventare così. Fra le stranezze che ho fatto c'è stata quella di appassionarmi a delle pippate allucinanti di film, un po' perché volevo dimostrare al mondo che al contrario di quello che dicevano i miei professori ero intelligente e un po' perché mi ci appassionavo sul serio. Col tempo per fortuna ho optato unicamente per la passione, cosa che mi ha fatto diventare un individuo molto più sopportabile e sano. Intorno ai sedici anni, quando mi sentivo tanto adulto ma era un marmocchio brufoloso, avevo raggiunto l'apice del mio snobismo e il mio punto di riferimento era il cinema di Stanley Kubrick. Che anche se non lo cito spesso, è il mio registra preferito di sempre. Ciò che Ozzy osbourne è per il metallaro medio, il buon Stanlio lo era per me. Anzi, credo che a mio modo l'ho amato ancora di più di come il metallaro medio ama Ozzy Osbourne, da qui tutta la devianza che ha segnato me e il mio rapporto con l'altro sesso. Poi successe che inneggiare Kubrick divenne una moda fra gli alternatici di 'sta ceppa - i precursori degli hipster - e così, mentre tutti dicevano che Arancia meccanica era un capolavoro senza essere mai andati oltre al fatto che era pieno di tette, io nel mio cuoricino piccino picciò da Grinch portavo questo Barry Lyndon.
Dopo aver vinto un duello contro il futuro sposo della cugina di cui è invaghito, il giovane Redmond Barry è costretto a vagare in giro per un mondi complesso e tumultuoso, facendo il soldato, il truffatore, fino a entrare nelle grazie di una nobile vedova...
William Makepeace Thackeray è stato uno scrittore famoso per aver saputo mettere alla berlina come pochi la società dei suoi tempi. A lui si deve quel magnifico scritto che è stato La fiera della vanità, che oltre ad aver dato il nome a una rivista che con l'argomento non centra nulla, anzi, è l'esatto opposto di quello che lui intendeva [ma basti pensare al Grande fratello, sic!]. Prima delle avventure di Rebecca Sharp però aveva deliziato i suoi contemporanei con un romanzo per certi versi molto simile, che è stato proprio Le memorie di Barry Lyndon, dal quale Kubrick ha tratto questo ennesimo capolavoro. E non parlo da fanboy, la filmografia di questo regista è costellata di capolavori assoluti uno dietro l'altro, anche se a distanza di anni l'uno dall'altro. Il regista inglese riprende i temi fondamentali del libro, non è più il protagonista a narrare le proprie disavventure ma un narratore onnisciente, elimina alcune parti dedite all'iniziale corteggiamento della cugina [il salto sul fiume col cavallo su grande schermo sarebbe potuto diventare imbarazzante come sequenza, ammetto], semplifica la prima caduta economica del protagonista con un elegante e arguto furto da parte di due simpatici ladri, e corre spedito con le immagini più belle che la storia del cinema ci abbia mai regalato. Per realizzare un contesto storico adeguato, infatti, Stanlio si era basato sui quadri dei pittori del diciassettesimo secolo, ricreando il tutto col solo ausilio della luce naturale. La fotografia infatti è la cosa che sorprende maggiormente di questo lavoro, proprio per la particolarità con cui è realizzata. Circolano ancora oggi leggende indicibili sul numero di candele usate per ricreare certi ambienti, ma l'unica certezza è che il risultato assicura la maniacale ricerca della perfezione del regista, che qui buca lo schermo col suo occhio e la sua rigorosa geometria. Tornando sempre all'ispirazione dei quadri, questo trucco fotografico gli era servito per dare proprio l'effetto di un dipinto in perenne movimento, soluzione intelligente e mai invasiva, e se si guarda bene infatti potremmo notare come, a parte i qualche scena in cui tale sistema era strettamente necessario, siamo sempre presenti dinanzi a delle inquadrature fisse, senza movimento a parte un freddo e rigoroso zoom sui dettagli principali. Tutto questo lavoro per quello che è considerato il film più atipico nella carriera del regista, perché il più lontano dalle sue tematiche principali. A mio modestissimo avviso, invece, questa definizione è da ritenersi errata, perché la tripletta politica-violenza-sesso è sempre presente, solo in maniera meno accentuata delle altre volte. L'occhio della cinepresa cerca di racchiudere un determinato periodo storico, cercando però di parlare di tutte le ere della storia, di come la corruzione e il potere dell'immagine (da qui forse una ricerca estatica così esagerata e immensa) sia sempre stato il vero motore sociale. Redmond Barry, o Barry Lyndon, non è un nobile. E' un semplice nobile di campagna innamorato però dell'idea della nobiltà assoluta, alla quale lui agogna oltre ogni maniera, non riuscendo però a gestirla manco quando la raggiunge - memorabile la scena in cui commenta un costoso quadro di poco valore che vuole comprare, il che, se pensiamo all'effetto che il regista voleva ottenere, è come se un quadro ne commentasse un altro. Il cercare di raggiungerla è l'inizio di tutti i suoi guai e sarà anche la causa principale della sua finale disfatta, dando così il quadro di uni dei personaggi più tragici di sempre: un uomo che ha perso tutto, dalla ricchezza agli affetti, finendo così per smarrire anche la sua identità. E sarà per questo che quel tentennare della penna di Lady Lyndon sul documento da firmare, che riporta il nome del suo ex-consorte, lascerà quell'amaro al cuore. Ciò che siamo, in parte, è ciò che tramandiamo ai posteri. E il successo sociale vale così tanto, se poi quel che resta è la stampa del nostro nome su un documento di infinita tristezza?
La firma di un grande maestro che qui pone il suo tocco sul suo terzultimo lavoro. La prova di un personaggio che, in ogni sua opera, ha sempre cercato di differenziarsi.Voto: ★★★★★