Potrebbe sembrare un futile motivo per dare il via all’azione, ma sin dall’opening “Basilisk” fuga i possibili rischi. Ogni puntata si apre difatti con un’introduzione in bianco e nero che scalpella con insistenza i mattoni del muro di odio che divide le due famiglie. Come nella “Batracomiomachia” e nella favola dello scorpione e della rana, anche qui gli animali forniscono una cristallina metafora per delineare l’inesorabilità degli istinti umani. Il serpente e l’aquila, simboli dei due casati, si attaccano a vicenda. Si daranno la morte entrambi, eppure una cieca forza istintuale li spinge ad agire in quel modo. Ed è questo fatalismo di ritorno, dove tutti i personaggi sembrano meri componenti di un orologio, a scorrere grandioso durante tutta la serie. C’è una sorta di respiro epico molto occidentale e un senso di tragedia inevitabile che darà esito nefasto all’amore tra i protagonisti e che rimanda al “Romeo e Giulietta” di shakespeariana memoria. Come in un poema corale, ognuno dei venti combattenti possiede peculiari tecniche ninja e una propria personalità. Ma la migliore eredità permutata dalle tragedie guerresche è sicuramente la messa in atto di una totale mancanza di confini tra Bene e Male. Eroi e antieroi stazionano in ogni campo di battaglia e la Giustizia non è altro che un lumicino che una delle due fazioni, in senso assoluto, porta sempre con sé. I Koga sono stati attaccati per primi ma non esitano a uccidere i loro avversari.
Gli Iga, dal canto loro, sono manovrati da Tenzen e si ha l’impressione che se il Destino non avesse continuato a “martellare” sulla rivalità tra le due famiglie, anche loro avrebbero potuto astenersi da quel bagno di sangue. Nessuna linea etica è tracciata con certezza, e i personaggi si muovono con ambiguo fascino in questa assenza. Stessa levità narrativa hanno i personaggi che muoiono sia alla terza puntata che all’ultima. Sulla caratterizzazione dei protagonisti, “Basilisk” rompe davvero tutti gli stereotipi: nemmeno i personaggi positivi si salvano, nessuna morte è raccontata con più drammaticità di un’altra e nessun combattente sovrasta gli altri per capacità ninja. Gli scontri sono spettacolari e veloci, non sfilacciati come nelle serie più lunghe. L’azione viene finalmente raccontata con un punto di vista maturo: innanzitutto le tecniche non hanno astrusi nomi (spesso anglofoni, per sudditanza tutta nipponica) e i ninja non si perdono in chiacchiere sulla spiegazione delle loro capacità, lasciando che sia lo spettatore a scoprirle semplicemente guardandole. Per quanto riguarda il lato tecnico, “Basilisk” è indubbiamente uno dei migliori prodotti mai usciti dall’animazione del Sol Levante. Il character design è morbido e preciso, la fotografia e i colori si adattano con camaleontica bellezza ai vari scenari della storia, le musiche sono suggestive ed evocative contribuendo ad aumentare i climax dei notevoli colpi di scena che si susseguono alacremente.
Nota particolare merita la perfezione delle animazioni, accostabile senza forzature a quella dei più quotati lungometraggi, oltre all’elevatissima qualità media di ogni puntata. Sul lato più propriamente estetico e di genere, la serie si muove con scioltezza tra violenza (mai comunque insostenibile e che ha una recrudescenza soltanto nella morte splatter di Tenzen, che funziona da catarsi prima dell’ultimo drammatico scontro), azione e un erotismo-soft. I personaggi femminili, soprattutto Akeginu e Okoi, non lesinano infatti sull’esibizione delle loro nudità e anche su questo versante “Basilisk” si colloca al vertice di un genere ormai saturo e che è specificamente giapponese. La regia di Fuminori Kizaki indugia sulla suddetta carne delle protagoniste e in particolar modo, vuoi per la sopraccitata bellezza del tratto, su primi e primissimi piani. Fondamentali sono gli occhi dei due sfortunati amanti, nei quali si racchiude il loro potere e il loro destino. Il finale di “Basilisk” giunge straziante e funereo, con la scelta inevitabile del doppio suicidio. Dopo aver visionato la serie, fugace come il lampo che tutto illumina, sorge spontanea una domanda: che sia l’Amore l’unica potenza in grado di sconfiggere la Morte?