domenica 30 dicembre 2012 di L'Abattoir
di Agata Faraone
Qualche tempo fa, a Una marina di libri (benedizione culturale che inaugura l’estate), mi trovai in una conversazione molto interessante con una ragazza che non era siciliana e mi sono resa conto di quanto lei avesse uno sguardo più distaccato su questa città di quanto non lo abbia mai avuto io. La riflessione è partita proprio dalla mia abitudine di frequentare la Caffetteria Feltrinelli, contenta di avere a disposizione finalmente, così dicevo entusiasta, una formula caffetteria-libreria che non esisteva prima, come nelle grandi e fredde città europee che non ho mai visto. Allora lei mi fece notare come in realtà tutto ciò sia assolutamente futile e fuorviante e che anzi bisognerebbe boicottarlo. Sul momento sono rimasta perplessa, ma non ho smesso di pensarci, a fronte soprattutto della frequenza di nuove aperture che come funghi stanno infestando la città, una città così mediocremente tranquilla che all’improvviso si mette a correre per raggiungere le altre. E mi mantengo nel paragone italiano, per carità. Ultima meraviglia: un fast-food avvistato pochi giorni fa proprio di fronte la fatidica Feltrinelli… Un squarcio. Ho avuto la tremenda impressione che quel palazzo ospitante il tremendo novellino seriale fosse esploso e quel che ne era rimasto fosse stato chiuso da vetrine immacolate. Come gli scavi archeologici quasi, come il museo degli orrori piuttosto. Ma chi si mette a correre d’improvviso senza prendere il passo rischia un collasso.
Mi chiedo: di cosa abbiamo veramente bisogno?
Tutti questi zuccherini funzionano da antidolorifici, da anestetici sui nostri spiriti critici, sulle nostre coscienze irrequiete e desiderose di avere il meglio, di vivere meglio. E ci troviamo coinvolti nel fascino del nuovo, del moderno, del “perché no, già che c’è vado a vedere anche io”. Mentre immagino la Sicilia dall’alto, molto in alto, come cosparsa di tanti brufoli tra il verde dei campi di meloni, carciofi, grano e vite, e autostrade. Punti neri di cemento che sorgono come cattedrali in pieno deserto. Un deserto che è ovviamente la piatta vastità degli orizzonti, del futuro incerto, delle aspirazioni in asfissia; quella di piccoli paesi in cui la vita viene sistematicamente riorganizzata intorno al centro commerciale perché non c’era altro, o comunque le feste religiose, le tradizioni sono sorpassate, avvizzite.
A Palermo la situazione è attutita dal fatto di trovarsi in una metropoli dopotutto, il tessuto urbano metabolizza in fretta, e qualche volta osservando dei luoghi non riesco a ricordarmi cosa ci fosse prima, al posto di dispensatori di cibo anonimo e seriale scelto per noi da tattici del marketing. Qualche idea vaga mi resta di quando, piccola, in braccio alla mamma, guardavo con stupore i barattoli di vetro dei confetti colorati da Spinnato.
Io non mi sento di dire cosa sia giusto e cosa non lo sia, sono la prima ad apprezzare qualche novità, ma con l’amarezza che sia tutto una bella pellicola che avvolge le rovine, un bel raso di seta broccato che copre un vecchio divano roso dalle tarme.
E sì, spesso vado al centro commerciale Conca d’oro, è dietro casa e c’è tutto, invece di percorrere almeno trenta minuti per arrivare in centro. Io ci vado, ma in me si ripete sempre una scena originaria, sin da quando ho visto metter su il cantiere di costruzione molti mesi fa: una volta al posto di questo complesso giallo sintetico c’era la vera conca d’oro, con il giallo abbagliante dei limoni dopo la pioggia, e tutto il cliché che sentiamo ripetere tante volte da chi meglio e prima di noi lo ha visto; e immagino chi ha realizzato il progetto e ha scelto il colore, lo immagino mentre beffardamente sorride e dice: basta che sia giallo limone!
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