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#BCM13: sui blog e sul lavoro culturale

Creato il 27 novembre 2013 da Altovolume

#BCM13: sui blog e sul lavoro culturale

Logo BookCity

Leggendo in giro si dice che Bookcity sia stato un successo. Essendoci stata solo sabato posso dire che c'era tanta gente, solo che non riuscivi a capire quanti erano lì per Bookcity e quanti per la solita Milano.
Comunque le presenze sono state più di 130.000.
Mi lamento unicamente della presenza di tanti eventi, tutti interessanti, del non poter assistere a molti, ma soprattutto per non esser riuscita ad andare al Salone del libro usato: troppo "lontano" dai luoghi degli incontri.
Gli altri anni era in un altro week-end, ammetto che se fosse stato tra qualche settimana ci sarei andata per perdermi con piacere tra i libri.
Bookblog. Editoria e lavoro culturale
Hanno partecipato Alessandro De Felice (Rivista Studio), eFFe, Christian Raimo (Minimum Fax), Stefano Salis (inserto culturale del sole 24ore), Marco Liberatore (doppiozero)
#BCM13: sui blog e sul lavoro culturale

Si è partiti dall'ebook di effe e si è arrivati a parlare di politiche culturali in sostanza, in un dibattito man mano sempre più caldo.
Qualche numero
Effe ha iniziato snocciolando numeri del sondaggio dedicato ai bookblog presentato al Salone del libro di Torino: il 60% dei blogger sono donne, il 44% ha più di 36 anni, il 79% ha almeno la laurea.
Il rapporto con gli editoriil 92% dice di non aver mai ricevuto pressioni per fare recensioni forzate.
il 42% ha chiesto i libri agli editori e l'84% l'ha ricevuto.
Quindi gli editori si limitano a mandare i libri, pare.
Il 57% ha ammesso di aver avuto l'impressione di leggere recensioni non proprio sincere.
Il 70% ha detto di non  essersi mai moderato nelle recensioni, però il 31% dice di essersi limitato a tacere aspetti negativi e il 66% dice di aver infilato critiche bonarie, senza sbilanciarsi troppo.
A questo punto eFFe si domandava a che punto è il lavoro del blogger: pare proprio infatti che sia sempre più simile al lavoro del giornalista culturale. Quindi il blogger deve avere le stesse responsabilità e privilegi?
Fare il blogger può essere una professione se alla base ci sono delle competenze, pur non essendo remunerati?
Il blogger oggi è comunque una figura riconosciuta a livello sociale, molti infatti lo scrivono nel curriculum vitae.

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Inserto culturale del sole 24 ore

A questo punto ha ribattuto Stefano Salis, con decisione, sostenendo che la professione deve essere retribuita, punto. Altrimenti è volontariato, hobby.
Chi ha determinate competenze offre un servizio e quindi deve essere retribuito, altrimenti non deve farlo, perché poi c'è un problema di credibilità.
Se tu fai il cameriere e sei pagato per questo, ma nel tempo libero scrivi gratuitamente, tu a livello professionale sei un cameriere, non un giornalista. 
Christian Raimo ha riposto con forza parlando di militanza culturale: è lavoro gratuito ma fondamentale, soprattutto in questo momento (c'è bisogno di spiegare perché?). I blog letterari stanno svolgendo un ruolo di supplenza di fronte al venir meno di scuola/università/tv nella mediazione culturale.
È importante essere pagati, vitale, ma perché a volte si sceglie di non essere pagati?
Perché non si sta rivendicando un reddito, ma uno status. Si accetta un lavoro sottopagato ma in cambio ho il titolo di giornalista ad esempio: è più appagante dal punto di vista psicologico in una società che non ha più coscienza del lavoro.
Retribuire tutto il lavoro dei redattori sarebbe la cosa più giusta, ma come? 
 Bisogna porsi la questione della credibilità e dell'indipendenza: nel momento in cui si accetta uno sponsor importante si è ancora credibili ed indipendenti agli occhi del mio lettore?

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Doppiozero

L'ideale sarebbe trovare un modo per prendere contributi da lettori.
Marco Liberatore si è trovato d'accordo con Christian Raimo su quest'ultimo punto, fiducia e reputazione sono imprescindibili nel web. Secondo lui per sostenersi e rimanere indipendenti sono necessari articoli di qualità che possono diventare interessanti per altri soggetti, che magari potrebbero interecettare autori per altre attività, remunerate stavolta.
A Salis risponde anche eFFe: non si può ridurre tutto a bianco o nero, perché esiste una gamma di grigi nel mezzo, nel caso dei blog una palude di grigi. È un panorama complesso, dove il compromesso esiste e dovrebbe essere guidato da griglie valoriali. Gli editori mandano i libri ai blogger che non hanno limiti etici: hanno risparmio economico e visibilità.
Il giornalista del sole 24 ore ribadisce che la militanza si può fare anche essendo pagati, altrimenti è ancora solo volontariato: la professionalità va riconosciuta. E se non sei pagato, sei un hobbysta. Bisogna trovare  nuove forme di sostenibilità alla cultura. Per quanto riguarda il digitale però, in fatto di guadagni, non c'è paragone con la carta: i media del web non stanno in piedi.
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Le cose più interessanti stanno nei blog però, risponde Raimo. Accettare il compromesso è rischioso, intacca inevitabilmente il rapporto di fiducia con il lettore. E quest'ultimo è importante perché il lavoro culturale è anche un lavoro espressamente politico. Il lavoro va pagato, vero, però ci sono battaglie che vanno combattute, combinando competenze e etica.
E la militanza è necessaria perché c'è un mercato che si autotutela.
In sintesi è di questo che si è parlato.

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rivista Studio

Non ho citato Alessandro De Felice perché le sue posizioni erano le stesse di Stefano Salis: un caso che i due rappresentanti del cartaceo la pensassero allo stesso modo su pubblicità, professione e digitale?
Alla fine del dibattito sono state fatte alcune domande dal pubblico.
Ad esempio una signora chiedeva a Salis come dovesse classificarsi un giornalista pagato pochssimo nel momento in cui decidesse di aprire un blog per conto suo: è da ritenersi ancora un professionista pur non essendo pagato?
Sinceramente non ho capito la risposta di Salis, perché ha ripetuto il mantre del "no soldi-no professionista" ed il resto è stato coperto dalla signora che ripeteva domanda con esempi.
C'è stata una ragazza che ha detto che scrive per da ben 10 anni gratuitamente per il web, facendo secondo lei cultura, e si sta stancando: proponeva a Raimo di farlo, questo sindacato dei giornalisti culturali.
[Passo indietro.
Raimo ha detto che chi scrive, e quindi fa cultura, è pagato poco o per nulla anche perché non è tutelato in quanto non giornalista, l'ordine in sostanza tutela chi è già tutelato. Per questo parlava di creare un sindacato per proteggere chi si occupa di cultura, citando anche Good Reads, comprato da Amazon, le cui recensioni sono ora monetizzate. In pratica Amazon fa soldi con lavoro non retribuito. E questo modello sarà quello che si imporrà probabilmente in Apple e Google.]
E poi un'altra signora ha parlato del sindacato dei giornalisti che esiste già e che si trovano in difficoltà, perché molti blogger stanno facendo il loro lavoro con gli stessi privilegi ma senza le dovute responsabilità etiche, mentre l'ordine si occupa d'altro.

È stato un bell'incontro che ha generato parecchie riflessioni.
Io sono d'accodo con Salis quando afferma che il lavoro deve essere retribuito, però non condivido questa visione bianco/nero. Ha ragione eFFe quando dice che esiste un universo di grigi.
La retribuzione obbligatoria per me scatta nel momento in cui quello che scrivo fa guadagnare una determinata persona/organizzazione. Io posso anche scrivere gratuitamente per altri, a patto che ne ricavi qualcosa: o materialmente o almeno moralmente, ad esempio un progetto in cui credo.
La militanza culturale di cui parla Raimo è necessaria e deve esistere al di là della retribuzione: denunciare, criticare, dibattere in modo libero ed indipendente, senza restrizioni o autocensure.
Sarebbe bello essere pagati anche per questo, ma siamo sinceri: chi pagherebbe al giorno d'oggi -restando in ambito libri- per criticare negativamente il libro del proprio editore?
Certo, poi la gratuità ha dei limiti.
Penso alla ragazza di prima che scrive da dieci anni e ora si è stancata: solo che non ha detto per chi e cosa scrive.
Se si parla di blog personali, chi ti dovrebbe pagare? L'università? Te stessa?
Se si parla di blog collettivi, solitamente la collaborazione è sempre volontaria, poi dipende da te.
Se si parla di giornali cartacei il discorso cambia: è più che legittimo pretendere di essere pagati visto che c'è un guadagno solitamente. In caso contrario lasciare assolutamente perché si innesca un meccanismo di sfruttamento e basta.
C'è poi il problema della professionalità e qui c'è parecchio su cui riflettere: un blogger può esserlo per professione? E in base a cosa uno si può definire blogger?
Diciamolo: i blogger sono un po' giornalisti.
Solo che i giornalisti hanno abdicato al loro ruolo: un po' per non scontetare l'inserzionista, un po' per rispettare il capo supremo (editore) e i suoi amici, un po' per non inimicarsi nessuno, sono sempre meno i giornalisti che fanno il lavoro con onestà intellettuale.
I blogger nascono un po' per hobbysmo e un po' per supplire a questo vuoto.
Che cos'è la professionalità?
È il pezzo di carta, i soldi guadagnati o l'esperienza?
A un blogger non si chiedono titoli, nemmeno responsabilità o principi etici. Ci sono blogger che sono cialtroni e ci sono blogger che sono praticamente giornalisti, creando vere e proprie redazioni virtuali.
Ma cosa rende una redazione virtuale meno vera di una fisica da un punto di vista intellettuale?
Sicuramente non il personale, perché i giornali sono pieni di collaboratori invece di giornalisti. Ovvero gente che scrive articoli senza averne la qualifica (per quel che vale). Gente pagata ma senza il titolo richiesto: si possono definire giornalisti professionisti in virtù solo del loro guadagno?
Per parlare dei blogger bisogna necessariamente parlare anche dei giornalisti, perché sono professioni che s'intrecciano e che dovrebbero trovare punti da condividere, come l'etica, non solo i pass.
E se un giornalista lo paga l'editore, come dovrebbe esser pagato un blogger?
È un tema delicato perché è il fulcro del discorso: il blogger accetta il compromesso perché può liberamente farlo, al contrario del giornalista. Accettare libri (o altri prodotti) non cambia il nostro parere ma forse il modo di pensare un'azienda si, come si è visto dal sondaggio di eFFe.
Raimo ha paragonato il blogger alla militanza culturale, asserendo che una volta erano le università ad alimentare queste militanza, grazie alle borse di studio e al sostegno alla ricerca che davano una minima fonte di reddito per poter operare in libertà.
Io credo che il blogger sia una cosa diversa dalla militanza vera e propria, che andrebbe fatta in università, il luogo più adatto. Tuttavia i tempi sono indubbiamente cambiati, discutere su internet commentando articoli e argomentando è quasi la stessa cosa, è cultura.
Il blogger deve trarre vantaggio da ciò?
In che modo?
 Fino a che punto può compromettersi con lo sponsor visto che non esistono codici etici di riferimento
Quando leggevo che alcuni blog/blogger ricevono libri o inviti non mi scandalizzavo, anzi: ero contenta per il blogger, il cui "lavoro" (si può definire tale?) veniva riconosciuto anche dalla casa editrice. Questo perché del blogger singolo tendo a fidarmi, c'è un rapporto fiducia: i blog che seguo, sono abbastanza certa, non faranno mai recensioni forzate.
Tuttavia recentemente ho più volte avuto l'impressione che invece certi blog collettivi tendono a non fare una critica proprio sincera, libera, acritica: come se ci fosse un tacito accordo per cui meno attriti si creano meglio è, per il portale e per la casa editrice. La casa editrice ha pubblicità aggratis, la redazione ci "guadagna" visibilità con un titolo in anteprima e gratis magari. Non sono contro la politica dei doni perché secondo me se un blogger è bravo è giusto che guadagni qualcosa (anche solo un libro), ma temo che questa politica in cui le aziende (non solo le CE) offrono prodotti ai blogger stia inquinando progressivamente la rete e il modo di viverla.
Non ho uno stipendio fisso/sufficente, apro un blog, ho successo, le aziende si interessano a me e mi mandano vari prodotti gratis contribuendo al mio bilancio familiare: quanto interesse avrò a dire chiaro e tondo che quel prodotto fa schifo?
A questo punto io non mi preoccuperei più della credibilità del blog, ma della persona che accetta il compromesso: quanto sono disposta a vendermi per un libro/pass/borsa/spesa/prodotto gratis?
E credo che tanti l'abbiano già fatto, perché in fondo non hanno alcun obbligo morale perché non sono giornalisti, e pur essendo letti da molti scrivono gratis e qualcosa vogliono pur guadagnarci.
Forse saranno sciocchezze, però si parla di formazione: io navigo sul web tutti i giorni, leggo e filtro, ragiono, commento. Se scoprissi che molti di quei blog/siti hanno fatto informazione inquinata io mi arrabbierei: certo non ci ho perso nulla in termini di soldi, ma come la mettiamo con il tempo passato a dibattere, commentare informazioni di base inaffidabili?
Quindi che fare?
Quali potrebbero essere forme di finanziamento sane per un blog?
Esssere blogger può diventare una professione?
Sarebbe utile una sorta di guida di principi etici da rispettare? 
E sulla professionalità cosa è giusto? 
Ha ragione Salis quando asserisce che solo se sei pagato sei un professionista? O un professionista è tale a prescindere da quello che fa per vivere?
E se io volessi scrivere un pezzo che il mio editore non vuole pubblicare perché sconveniente, cosa faccio, rinuncio? Se decido di pubblicarlo su un blog, viene meno la mia professionalità?
Chiudo con le parole di Alessandro de Felice, poco citato.
"...Non è che tutti possiamo fare i blogger e pretendere di essere pagati. La rete non deve giustificare tutti."
Parole con cui concordo pensando a certi blog singoli decisamente imbarazzanti che magari vorrebbero pure essere pagati (ma da chi?) per le loro schifezze.
Links:
Gli Appunti di Christian Raimo

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