Qualche tempo fa, l’annuncio che il nuovo film con Belen Rodriguez avrebbe ricevuto finanziamenti pubblici dal Ministero dei Beni Culturali in nome di un teorico “alto valore culturale dell’opera” ha destato scalpore e venti di scandalo e indignazione. È la classica notizia da “ora la condivido su facebook e ci scrivo un commento indignato”, e infatti è stata ripresa da moltissime piattaforme giornalistiche e affrontata come se si trattasse di un episodio particolarmente eclatante.
La verità è che non c’è assolutamente nulla di strano nel fatto che il film di Belen riceva soldi dallo Stato. I cosiddetti “contributi a progetti di interesse culturale” sono erogati ogni anno in base alle decisioni di una commissione che giudica i requisiti di idoneità tecnica e qualità culturale o artistica dei candidati. Tra i vincitori di questo importante contributo economico ricordo negli anni “Sapore di te” dei Vanzina, 900.000 euro di soldi pubblici spesi per finanziare “Allacciate le cinture” di Ozpetek, 400.000 per “Manuale d’amore 3” e quasi un milione per l’ultima fatica di Gabriele Salvatores, il discutibile “Il ragazzo invisibile”.
In uno scenario dove pressoché chiunque, da Sabina Guzzanti a Checco Zalone, ha accesso a centinaia di migliaia di euro di fondi pubblici senza che il Ministero chieda conto di ritorni economici del prodotto su cui sta investendo, non capisco l’accanimento contro Belen Rodriguez. Anzi, è molto probabile che lei ci costi meno in tasse rispetto a quanto i contribuenti hanno tirato fuori negli anni per fantomatici “autori” come Tornatore, Marco Tullio Giordana o Ozpetek. Il problema forse risiede nell’idea che questi “patrimoni culturali” non debbano rispondere a leggi di mercato, e possano permettersi di dissipare denaro pubblico spendendo milioni per un film che andranno a vedere in 10.
“Baaria” di Giuseppe Tornatore è costato 28 milioni (con contributo pubblico) e ne ha incassati circa 10,5: come è giustificabile un investimento su un prodotto incapace di recuperare la metà dei soldi spesi per realizzarlo? Anche se il film si fosse rivelato un capolavoro (e non è decisamente stato così), come è pensabile che in Italia esista un settore di mercato dove un fondo di investimento è programmato per ignorare i disastri commerciali sui curricula di chi finanzia ogni anno?
Negli Stati Uniti, i risultati commerciali di un film contano più di ogni altra cosa. Il regime di mercato del cinema è frenetico e spietato e vige la brutale ghigliottina del “dentro o fuori” sulla base dell’andamento finanziario di un prodotto dopo il primo weekend di distribuzione. Se Will Smith fallisce al botteghino per due o tre volte di fila, farà fatica a firmare un contratto decente per anni. Intere carriere vengono erette, raggiungono l’apogeo e crollano nel giro di una stagione.
Non penso che il capitalismo spietato sia la soluzione al problema dell’industria cinematografica in Italia; credo però che non si possa continuare a spendere soldi pubblici per prodotti che non ti faranno mai rientrare dell’investimento.
Tornatore avrebbe dovuto pagare personalmente il flop di pubblico e critica di “Baaria”: avrebbe dovuto rispondere dei 28 milioni di budget impegnati in un prodotto rischiosissimo che difficilmente avrebbe mai ottenuto riscontri, in Italia o all’estero. Invece, al contrario, ne ha ricevuti altrettanti per i film successivi e nessuno si è mai preoccupato di fermarsi e valutarne non solo “l’alto valore culturale” ma piuttosto il potenziale economico.
Non ho niente di personale contro Tornatore o contro i registi italiani più “intellettuali” e d’autore. Certo, ho qualche problema con il fatto che in Italia pare che fare cinema impegnato significhi necessariamente riprendere Margherita Buy o Laura Morante che piangono nel tinello, e in generale sono più uno da mostri giganti che da drammoni intimisti. Detto ciò, e assodata la mia lontananza culturale dal cinema d’autore italiano, non sono mai stato particolarmente indignato dal fatto che il Ministero stanziasse fondi per Pieraccioni, Christian De Sica e Checco Zalone. Sapete perché?
Perché costoro hanno spesso molte più chance di non buttare via soldi pubblici. Il fondo e la commissione del Mibac sono ancora vivi grazie a gente come Zalone o De Sica, e non certo per merito di sedicenti maestri della settima arte che non potrebbero riempire una sala neanche se dirigessero Batman contro Bud Spencer.
Paradossalmente, vi sono molte più responsabilità della situazione artistica e imprenditoriale del cinema italiano tra i cosiddetti “artisti” che tra i biechi commercianti e intrattenitori che si porta a casa un segno positivo al momento di distribuire il film. Se Mario Martone può ancora buttare via gli stanziamenti del Ministero, lo deve anche al fatto che “Sole a Catinelle” ne fa tornare abbastanza in tasca ai suoi produttori.
Ci sono molte possibili critiche contro l’idea di pensare solo al margine di profitto al momento di investire su un’opera, cinematografica o artistica in generale. La principale riguarda il pensiero che un film sia qualcosa di più di un prodotto da posizionare sul mercato, ma rappresenti un’entità verso la quale valga comunque la pena impegnarsi a investire a fondo perduto. Come nel caso del restauro delle opere d’arte, i monumenti storici, la musica classica, le opere liriche e il teatro, così il cinema d’autore meriterebbe un incentivo a prescindere dalla capacità di diventare un prodotto di massa.
Alcuni Paesi praticano puntualmente questo ragionamento, stanziando nel cinema significative somme di denaro pubblico a fondo perduto: la Francia e la stessa Unione Europea portano avanti l’imperativo degli “investimenti per la cultura come bene di tutti”, al pari dell’istruzione e della mobilità internazionale. Perché l’Italia non dovrebbe attenersi a un principio indubbiamente nobile e degno di essere perseguito?
Semplicemente, perché potrei argomentare contro il “valore culturale” di ognuna delle opere cinematografiche alle quali è stato concesso il contributo. Da Belen a Tornatore, il cinema italiano non merita più, da tanti anni, di essere classificato come arte, e sarebbe il caso di smettere di fare finta che lo sia.
Nel migliore dei casi, il cinema italiano è un’industria dell’intrattenimento con poca competitività, senza alcuna capacità di essere esportata all’estero (con la recente eccezione di Sorrentino e pochi altri) e senza un substrato di “educazione al medium” paragonabile a quello presente in Francia, Germania o Inghilterra.
È inutile indignarsi se un film con Belen riceve fondi pubblici dallo Stato. Probabilmente, dal punto di vista del Ministero, è un investimento migliore rispetto al nuovo drammone della Comencini. Ciò che invece meriterebbe retweet, condivisioni e video da Repubblica.it sarebbe una denuncia del sistema che ha permesso a certi “autori” di andare in perdita per decenni e non pagarne mai il prezzo.
Davide Mela
@twitTagli