Oggi avrebbe dovuto svolgersi a Belgrado la parata organizzata per il Pride 2012, ma, esattamente come un anno fa, alla fine la manifestazione è stata annullata per "motivi di sicurezza". Il premier serbo Ivica Dacic, che ricopre anche l'incarico di ministro degli Interni, nella pomeriggio di mercoledì ha annunciato la decisione, presa "sulla base della valutazione della situazione e delle raccomandazioni di sicurezza [...] al fine di garantire la sicurezza dei cittadini e preservare l'ordine pubblico e la pace" a Belgrado, come si legge nel comunicato ufficiale del ministero. Il comunicato si è premurato di precisare che non si tratta di "una resa di fronte a coloro che pensano di poter mettere in questione la tenuta di assemblee pubbliche con le loro minacce", ma che le autorità hanno ritenuto "che in questo momento si rischiavano serie turbative dell'ordine pubblico". Tant'è che gli incontri del campionato di calcio previsti per il 6 ottobre nella capitale serba sono stati rinviati per gli stessi motivi.
Non si tratta dunque di un divieto, come era stato auspicato invece dal Patriarcato serbo ortodosso che aveva chiesto di proibire quella che aveva definito come la "parata della vergogna", ma solo di un provvedimento precauzionale dettato da ragioni di sicurezza pubblica. Il risultato, però, non cambia: anche quest'anno il Pride di Belgrado non ha potuto svolgersi. Ancora una volta hanno vinto i violenti, gli intolleranti, i razzisti, i fondamentalisti religiosi che credono avere il monopolio della verità e pretendono di imporre la loro visione del mondo e le loro convinzioni al resto della società. Sono gli stessi che avevano indotto ad una analoga decisione le autorità lo scorso anno minacciando di mettere Belgrado a ferro e fuoco, gli stessi che nel 2010 lo avevano fatto davvero provocando violenti scontri di piazza, gli stessi che l'anno prima ancora avevano selvaggiamente aggredito, malmenato e insultato chi cercava di partecipare al Pride. Il tutto con la santa benedizione della gerarchia ortodossa.
"Non credevo che anche quest'anno mi sarei trovato obbligato a rivolgermi a lei - ha scritto il patriarca Irinej al premier serbo - a nome della Chiesa serbo-ortodossa e dei suoi fedeli, che sono la maggioranza in Serbia, ma anche a nome di numerosi fedeli di altre religioni, con la preghiera e la domanda di prevenire, attraverso la sua autorità, la scandalosa mostra fotografica". Non credeva di doverlo fare, ma lo ha fatto, evidentemente convinto che sia suo diritto imporre il suo volere alle autorità civili in nome di un superiore potere che naturalmente spetta a lui esercitare sulla terra. E imporre a che a chi non condivide la stessa fede. Il patriarca Irinej aveva chiesto, infatti, anche di "impedire la scandalosa mostra di fotografie" dell'artista svedese Elisabeth Ohlson Wallin intitolata Ecce homo, costituita da una serie di fotografie che mostrano Gesù insieme a omosessuali, transessuali e malati di Aids. Una mostra "profondamente oltraggiosa", promossa "dagli omosessuali e dagli organizzatori del gay pride" il quale, secondo il patriarca, "getta una pesante ombra morale sulla nostra città, sulla nostra cultura cristiana e sulla dignità delle nostre famiglie".
Il ministero degli Interni è stato così costretto a mobilitare centinaia di agenti di polizia per garantire la sicurezza dell'inaugurazione della mostra. L'Unione europea, ancora una volta , ha fatto sapere di considerare il Pride una prova di democrazia ammonendo che "gli occhi di tutti sono puntati sulla Serbia". Alla notizia che il Pride è stato vietato, il segretario generale del Consiglio d'Europa, Thorbjorn Jagland, dicendosi sorpreso e deluso della decisione delle autorità serbe, ha ribadito che chiunque deve poter esercitare il diritto alla libertà di espressione e che anche la Serbia deve garantire ai suoi cittadini il diritto a partecipare a qualsiasi evento pacifico. Principi elementari, che dovrebbero essere senso comune e che invece faticano ad affermarsi in una Serbia sempre pericolosamente in bilico che, più che il Kosovo o l'Europa, rischia di perdersi definitivamente illudendosi di ritrovare sé stessa in una tradizione oscurantista.