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Bella Addormentata, di Bellocchio. Parole, parole, parole
Creato il 18 settembre 2012 da SaramarmiferoChi è la bella addormentata del titolo? Eluana Englaro? La figlia di Isabelle Huppert attaccata ai macchinari e agghindata come una principessa? No, le belle in questione sono anzitutto quelle che hanno la possibilità di aprire gli occhi. Sono Rossa (Maya Sansa), che le parole e un bacio del medico Pallido tentano di risvegliare dal baratro di autodistruzione in cui è sprofondata, e Maria (Alba Rohrwacher) che, preferendo alla preghiera per Eluana morente la vaga ma tangibile promessa di un amore, imparerà ad abbracciare il pensiero altrui e la libertà del prossimo suo, a partire da quella del padre, senatore in piena crisi di coscienza (Toni Servillo). Dal canto suo, Marco Bellocchio ha tenuto a precisare che il dormiente da ridestare è in fondo il Bel Paese tutto, stuprato dalle idiozie di un'intera classe dirigente alle prese con un grattacapo etico troppo controverso per essere risolto con mezzucci da politicante, troppo grande per essere imbrigliato nell'angusto (e volgare) lessico del politichese. I televisori perennemente accesi ci restituiscono impietosi le dichiarazioni dell'allora premier Berlusconi all'indomani della votazione di Palazzo Madama sull'alimentazione artificiale, il chiacchiericcio catodico e la retorica a basso prezzo, che nel film vediamo rimbalzare da una vasca termale piena zeppa di politici togati, a guisa di pingui consoli romani, fino al rissoso foro parlamentare. L'accanimento, prima terapeutico, diventa mediatico. Attraverso un processo inverso rispetto a Vincere, in cui la biografia di Ida Dalser serviva da trampolino di lancio per una serie di interrogativi sulle radici di una nazione, sulla sua patologica facilità alla rimozione memoriale e sui suoi fanatismi tanto laici quanto religiosi, qui si decolla dalla storia collettiva per approdare alle vicende private di un assortito gruppo di personaggi, accomunati dai temi della vita, della morte, della libertà e dell'amore. Ancora una volta, si ricorre ad immagini d'archivio: notiziari, talk show, interviste in tv. Mentre Eluana non appare mai, il giovane Mussolini-Filippo Timi, amante appassionato della Dalser, veniva nettamente separato dal Mussolini-Duce, assurto ad icona mediatica e pertanto mostrato solo tramite i cinegiornali dell'epoca, che ne facevano anzitutto un corpo (politico) enorme e schiacciante.Oggi come allora, Bellocchio si conferma regista coraggioso. Merce rara nel panorama nostrano. Ma un film di cui si sente il bisogno non necessariamente può dirsi riuscito al 100%. Dispiace il vittimismo del maestro, le sue manie di persecuzione nei confronti del presidente di giuria Michael Mann e del povero semplice giurato Matteo Garrone, rei di non aver incluso Bella Addormentatanella rosa del vincitori al recente Festival di Venezia (una polemica che ricorda quella per la mancata premiazione di Vincere a Cannes). Una "paranoia" forse nata con l'indegno rifiuto di finanziamenti all'opera da parte della Film Commission del Friuli Venezia Giulia, che hanno spinto il 'caso Bellocchio' ben al di là dello specifico filmico. L'ultima fatica del regista piacentino resta interessante, ma non meno gravida di difetti. La gestione della narrazione è a tratti grossolana, sbilanciata nella messinscena delle diverse, forse troppe, storie. Stendiamo un velo pietoso sulla presenza di Brenno Placido, attore cane per eccellenza, capace con una sola declamazione della lauda di Jacopone da Todi di eclissare la bravura della Huppert e dell'altro figlio d'arte Gianmarco Tognazzi(ma perchè agli eredi del grande Michele non viene interdetto l'ingresso alla professione??). Soprattutto, i bellocchiani doc storceranno il naso di fronte ad una regia un po' narcotizzata - un'altra bella addormentata? - che poco concede ai virtuosismi senza esclusione di colpi cui il cineasta con "i pugni in tasca" ci ha in passato abituato.
Tra il dire e il fare, c'è di mezzo il cinema. La forza distintiva della settima arte consiste nel saper esprimere, attraverso le azioni prima ancora che con le parole, una dinamica narrativa e discorsiva. Se qualcosa si può rimproverare in questo senso al film è appunto la scelta di verbalizzare, piuttosto che immaginare, il complesso intreccio di punti di vista che animano il dibattito sul fine vita e sul diritto all'autodeterminazione. Parole, parole, parole. I personaggi non stanno zitti un secondo, e l'ansia di dialogo di ciascuno, certo esagerata da Bellocchio per indicare che la morale della sua favola e la soluzione ai nostri dilemmi etici sta proprio nell'imperativo (morale) a comunicare, finisce quasi per ricalcare la fastidiosa invadenza del baccano televisivo. Nell'Italia assopita di Eluana Englaro c'è davvero posto per il dialogo, per un reale scambio di opinioni? A dispetto dell'intento di definire le ultime volontà di chi non ha più voce, il blaterare incessante è qui sintomo di una comunicazione a senso unico, perchè tutti vogliono esprimersi, ma praticamente nessuno sembra disposto ad ascoltare. C'è il senatore della Pdl che prova il suo discorso politico senza poterlo mai enunciare alla platea parlamentare, l'attore cane di cui sopra che desidera disperatamente le attenzioni della madre e si trova a monologare davanti al respiratore della sorella in coma, infine la giovane attivista cattolica che rifiuta le telefonate del padre. I lamenti rimbalzano su orecchie sorde, le confessioni su cellulari che squillano a vuoto. Questi monologhi rappresentano, per bocca dei vari personaggi, tesi più o meno laiche attorno al tema della libertà di vita/morte. Ma il mancato dibattimento di queste tesi le une con le altre non per forza alimenta una riflessione profonda da parte dell'autore, né dello spettatore. A seminare davvero il senso (auto)critico è, non a caso, l'unico episodio di reale confronto messo in scena: quello tra la tossica Maya Sansa, che vorrebbe essere lasciata libera di morire, ed il medico (Pier Giorgio Bellocchio), che le impedisce il suicidio. Nella sua missione di salvataggio, dettata non da una specifica pietascristiana ma da una generica misericordia umana, egli finisce con il prevaricare il diritto di scelta della ragazza. Quella di Rossa e Pallido è la storia meno legata, se non ad un livello meramente cronologico, alla vicenda di Eluana Englaro. Eppure, è senz'altro la più riuscita. Il confronto, dapprima verbale, poi fisico e muto, tra due opposte volontà che si incontrano, interrogano e rispondono, farà finalmente svegliare la bella addormentata, e a noi spettatori sembrerà di tornare a casa col cuore alleggerito.
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