Autrice televisiva, giornalista, regista, scrittrice. Definire Valeria Paniccia “poliedrica” è più che naturale ma, a ben vedere, tutte queste professioni riescono a intrecciarsi perfettamente nello sviluppo di un unico tema…
La mia avventura cimiteriale dura da tanto tempo, e il libro è solo uno dei molti modi in cui l’ho espressa. È un progetto su cui ho voluto insistere molto, trovando poca disponibilità da parte di editori restii a prendere in considerazione l’idea, visto l’argomento trattato. Ho fatto molta fatica, ma allo stesso tempo sto notando che in questi ultimi anni la percezione comune sta cambiando. È vero: da un lato la parola scritta intimorisce, fatica a passare; ma dall’altro lato c’è molta gente, anche in Italia, che è innamorata dei cimiteri, che ci cammina e li esplora. Forse la riluttanza che si pensava ci fosse è inferiore del previsto: nei confronti dei cimiteri, al contrario, c’è un interesse diffuso.
Anche perché vi si fanno incontri “speciali” e inaspettati, come quello con Cesarina Vighy…
Sì, sono persuasa – e me ne meraviglio sempre – che spesso i morti facciano incontrare i vivi in una maniera bellissima, che siano all’origine di legami stretti, profondi, indissolubili. In situazioni “normali” non avverrebbe la stessa cosa. In Cesarina mi sono imbattuta sul vaporetto per San Michele in Isola. E siamo diventate amiche finché non è morta dopo una lunga malattia. Forse saranno solo coincidenze, ma negli incontri al cimitero trovo ci siano delle spinte che non riconosco altrove. Le sorprese, poi, non finiscono qui: per me è come se ogni pietra d’inciampo, ogni lapide, ti aprisse un mondo. Se vogliamo, anche il modo in cui ho iniziato questa avventura è stato frutto del caso. Stavo facendo ricerche sulla figura della doppiatrice Rosetta Calavetta, colei che aveva prestato a Marylin la voce, ma su internet non trovavo notizie. È stato allora che l’attore Elio Pandolfi mi ha portata al Verano, convinto di averne visto la lapide. Ed è stato allora che ho scoperto quanto i cimiteri siano in grado di sprigionare meraviglia.
A volte, leggendo, si ha l’impressione che tu non stia parlando di luoghi di sepoltura, ma di giardini lussureggianti.
È proprio così. Qualche domenica fa sono stata all’Acattolico di Roma e, mentre mi trovavo lì, mi sono innamorata… Lui era un albero di Calliandra tweedy, una pianta che arriva dal Sudamerica. Era appena fiorita e aveva questi ciuffi rossi, leggerissimi che mi hanno completamente inebriata. I cimiteri italiani sono così: veri e propri giardini di colori e profumi, in cui non c’è assolutamente nulla di tetro e di macabro. Secondo me, uno dei motivi per cui ci si dovrebbe entrare è per coglierne la bellezza, che sta anche nella possibilità di farsi ammaliare da un fiore.
Adesso la bellezza cimiteriale la stai ricercando nelle pose di «erotico abbandono». Cosa significa, esattamente?
La prima volta che ne ho scritto l’ho fatto in modo inconsapevole. Poi, per mettere più a fuoco quel che avevo in animo ho riaperto il mio archivio, con le foto che avevo già realizzato, e sono tornata nei cimiteri per inseguire le sculture di queste fanciulle sensuali, per comprendere quale ne fosse l’origine. Ecco che mi si è aperta una nuova fascinazione cimiteriale, che racconta di quando gli scultori italiani si sono rifatti alla corrente del sensualismo dei preraffaelliti e si sono resi conto che della morte si poteva dare un’immagine morbida, pacificata. E, nonostante le censure, che molti hanno subìto, queste fanciulle sono ancora al loro posto: belle, nude, dormienti.
di @si_ceriani