Meno 7, meno 6. Poi no, non viene meno 5. Direttamente meno 10.
Ma che ci faccio qui a battere i denti e a pensare che potrebbero cadermi le dita dei piedi, trovarle scollate dal resto del corpo a galleggiare in un calzino di lana gelido. (E’ che sono un animale estivo, da qui i pensieri splatter).
Che ci faccio qui?
Aspetta, ma è neve quella che volutamente mi sto facendo atterrare sulla lingua, come da piccola quando per qualche giorno non si andava a scuola.
E siamo noi quelli che stanno giocando in un parco deserto a palle di neve – io senza guanti, perché “no dai, mica servono davvero, io non ci so stare neanche con i guanti” -?
Quello è il Danubio, quando si incrocia con la Sava nella curva sotto la fortezza, museo militare sì con mausoleo musulmano dentro, ma soprattutto neve soffice e profondissima, di un bianco accecante che copre i cannoni e le statue, spostate dal centro perché troppo nude, e si estende a perdita d’occhio fin sulle rive del bel Danubio blu che per suggestione del momento e particolare gioco di colori sembra davvero blu dall’alto, mentre tu mi guardi da giù con il tuo cappello da italiano al freddo che mi fa ridere e che mi fa venire voglia di baciarti le labbra gelide ogni volta che posso.
Beograd. Palazzi sventrati che restano in piedi a memoria futura e per le foto di chi come noi si trova qui.
Beograd le parole in cirillico per esercitare la lettura che mi muoiono dentro perché non ne conosco il significato.
Beograd un cane in agonia, bagnato e tremante, un uccello morto congelato, brillante ma morto su un marciapiede e due donne ridono e non lo notano nemmeno.
Beograd ferma agli anni ’90 con le macchine anni ’70 e la voglia di ballare e di vivere di tutti gli anni e di tutti i ragazzi del mondo. Basta che ci sia delle musica – bella o brutta è indifferente – da ballare da cantare, che fa caldo dentro e ci togliamo i tre strati di vestiti che abbiamo addosso per poi rimetterci tutto in silenzio e a fatica ché fuori ci sono 20 gradi in meno.
Beograd e Napoli che qui si incontrano. I ragazzi per 10 giorni, prima le ricerche poi la produzione, sempre in giro, sempre in ritardo tranne l’ultimo giorno quando si torna in Italia.
Beograd la mattina presto verso l’aeroporto in taxi, il sole perfettamente rotondo e incandescente – per quanto possa essere incandescente il sole a fine dicembre in Serbia – basso nel cielo, i campi sono tutti completamente bianchi come se nevicasse da sempre, la nebbia fitta, fittissima e solo il fumo bianco e denso di una fabbrica in lontananza.
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