Berlino, come il primo amore, non si scorda mai. E garantisco che questo non ha niente a che vedere con le palpitazioni che mi scuotono mentre digito il nome della capitale tedesca e lascio che i ricordi pulsino nelle vene – frammisti ai vari globuli rossi, globuli bianchi, piastrine e quant’altro.
«Aspettami, sto tornando». Questo mi frullava in testa mentre l’aereo andava a sfiorare il suolo tedesco.
Il tempo di sistemare il sistemabile e sono già sulla S-Bahn, il dinamico sistema nervoso di Berlino: crocevia di rotaie che attraversano la città, mezzo di trasporto ideale per passare dall’est all’ovest e viceversa.
Già, perché il muro sarà anche crollato, ma ci sono cicatrici che ti porti addosso per sempre. E si vede.
Non ho neanche fatto in tempo a far abituare il mio battito cardiaco al ritmo della città che già mi faccio investire dall’imponenza teutonica della Brandeburger Tor, ultimo ricordo della mia ultima volta con Berlino. Intuisco il Reichstag alla mia destra, svolto a sinistra in preda all’ansia, come se fosse la prima volta con quella ragazza che conosci e insegui da una vita.
Pochi passi e sono all’interno del capolavoro della modernità che si erge in Postdamer Platz, sotto al cupolone avveniristico del Sony Center.
E mi sento a casa. Calcolo che nel giro di poco tempo ho già totalizzato un onesto litro di birra e sento di aver rispettato tutti gli step del caso con la bella di cui sopra, soprattutto considerando che le mie labbra si poggiano di nuovo su una Berliner Pilsner – a suo tempo un’altra prima volta non indifferente.
Il tutto anche per accompagnare (e aiutare) la digestione dei primi zwai currywursts, tanto per non mancare di rispettare un’altra tradizione.
Già, sono quel tipo di inguaribile romantico che ha il gusto per le piccole usanze quando torna dopo tanto tempo a casa da chi ama.
Ma ci vuole poco perché in breve tempo anche chi credo di conoscere e di ricordare palmo a palmo riesca a sconvolgermi. Una passeggiata dal Reichstag fino ad Alexanderplatz basta a farmi sgranare gli occhi su quanto la città sia in fermento: lavori ovunque, ristrutturazioni, ampliamenti, nuove inaugurazioni imminenti, miglioramenti alle infrastrutture.
Perché la perfezione non esiste, ma se esistesse sarebbe molto simile a Berlino: lei non si accontenta mai dell’efficienza e del rinnovamento, ma sta sempre pronta a tenersi al passo e non sta mai ferma.
Così, ogni volta che torni è come la prima, ma allo stesso tempo è diversa.
Cambiano le virgole e a volte anche i periodi, ma il discorso è sostanzialmente lo stesso. Se possibile, anzi, migliora.
E allora lo spettacolo del Dom investito della luce mattutina, la monumentalità del Reichstag, e il verde della Unter Den Linden stanno perfettamente in cornice col dinamico Marx-Engels Forum e con la quasi futuribile Alexanderplatz.
Quasi mi vengono le lacrime a passare di nuovo sulla sua pavimentazione pedonale, pullulante di artisti di strada. La fontana, l’orologio, lo stagliarsi della Fernsehturm, l’incrociarsi di tramvia e S-Bahn ne fanno un simbolo di dinamismo senza pari in tutta Europa.
Un dinamismo sottolineato da una grande insegna che si erge a fianco delle rotaie della S-Bahn e recita di nuovo il nome della piazza.
«Eccomi, sono tornato a casa»
Berlino è l’unico posto che ha la rara capacità di riuscire a far svanire dalla mia mente – ed è un’affermazione che pesa – la mia piccola, provinciale e amata Firenze, anche se per poco. Per una settimana e poco più ho dimenticato da dove venivo, non fosse altro che per un braccialetto viola sul polso sinistro, i pessimi tentativi di imitazione del caffè e l’obbligo auto-imposto di adattarsi il più possibile alle abitudini culinarie tedesche.
Viaggiare per quella che sembra una metropoli futuribile, e che rappresenta in pieno quello che dovrebbe essere secondo me una capitale europea, ti fa riflettere seriamente sulla grettezza municipale e provinciale che in genere tanto apprezzi.
Ti rendi conto di quanto manchi, a dispetto di quanto di bello c’è, nella città da cui vieni e che ti ha cresciuto.
Perdonami, insostituibile Firenze, ma quando passo per Berlino è inevitabile che tu finisca tra parentesi. La dinamicità (quante volte ho già usato questa parola?), la modernità, il sistema aperto e l’efficienza del capoluogo tedesco risvegliano in me una forma particolarmente spiccata di spirito cosmopolita.
Uno spirito che, si badi bene, tendo a coltivare con cura, ma che in genere sto anche attento a contenere quel tanto che basta a non appiattire tutto in un unico tono di colore: allora metto l’accento sulle radici, sull’importanza dei posti, delle persone e del contesto in cui cresci e vivi le tue esperienze fondamentali.
Eppure, come mi piace ricordare, mi trovo spesso nel paradosso di chi ha radici familiari talmente composite da voler riaffermare con forza la propria fiorentinità, ma che allo stesso tempo è consapevole pur nel suo accentuato campanilismo che nessun posto ti appartiene mai veramente finché non sei te a sceglierlo.
Berlino, in tutto questo, è come il sogno che non giunge mai, anche perché i sogni – come del resto anche questa città – sono un cantiere sempre aperto.
Vedi che alla fine non potrò dirmi berlinese, non sia mai, ma potrò comunque dichiarare il mio amore incondizionato a quanto vive su questo suolo.
doc. NEMO
@twitTagli
(Crediti foto di copertina, matteof72)