Fifty Shades of Grey (Cinquanta sfumature di grigio), un film di Sam Taylor-Johnson. Con Dakota Johnson, Jamie Dornan, Marcia Gay Harden. Proiezione speciale.Ecco, è arrivato. Oggi qui a Berlino, domani nei cinema di tutta Italia. Ed è quello che ci si aspettava, un film glamourizzante, di erotismo incolore e insapore. Con una sua eleganza, ma con dialoghi a momenti imbarazzanti. Il guaio vero è che dura più di due ore, e per aspettare il primo contatto carnale (una robuccia) ci vuole almeno un’ora. Di una noia micidiale. Voto 5
“50 sfumature di grigio? Neanche se mi puntano la pistola alla tempia. No, guarda, io vado a vedere quel film estone bellissimo, oppure il dcumentario sulla rockband groenlandese indipendentista” (non sto scherzando, il documentario è davvero in programma). Ecco, i commenti stamattina qui alla Berlinale eran così. Invece poi nel pomeriggio c’era una fila che non finiva più alla prima delle tre proiezioni stampa, quella all’Imax Cinestar al Sony Center, del film tratto dal bestseller dell’australiana E.L. James venduto a vagonate di milioni di copie worldwide (credo che l’Italia si sia rivelato uno dei mercati più recettivi e entusiasti). Tant’è che sono entrato a malapena e mi son dovuto sedere sulla moquette ché di posti non ce n’eran più, e gli inflessibili uomini di sala mi hanno pure impedito di accucciarmi sui gradini, che sarebbe stato un attimo più comodo pur nella scomodità. Mi verrebbe da dire: “son tedeschi”, ma non lo dico, perché non sta bene generalizzare e andare per cliché etnici. Comunque da domani il film è in tutte le sale del mondo, comprese quelle italiane, e dunque questa prima mondiale qui a Berlino non è poi una grande anticipazione. Premetto che io il libro, anzi i libri in varie sfumature di colore della James non li ho mica letti, e mi guarderò bene dal leggerli. Sicché sono arrivato al film sapendone quel qualcosa che non si poteva non sapere. Storia di sadismo&masochismo, di un Dominator e di una Submissive, con un qualche uso di legacci, fruste, flagelli, torturine. Film che è esattamente quanto ci si aspettava, e anche si temeva. Le perversioni del Divino Marchese e del barone Von Sacher Masoch diluite e ridotte a tisana e sciroppo, a uso delle masse globale desiderose sì di sporcaccionerie moderne e cool, ma mica troppo, che poi se di frustate se ne prendon davvero il sederino fa male. Peccati addomesticati, brividi casalinghi, e un sesso sottoposto alla candeggina del glamour e dunque inodore, incolore, insapore. Ma non è il caso di ironizzare più di tanto, l’addomesticamento di pulsioni un tempo sregolatrici è la condizione necessaria per la loro inclusione nella media sensibilità, per poterle rappresentare, mostrare, raccontare. Speravo qualcosa di più dalla regista Sam Taylor-Johnson, nata come fotografa (e col cognome Taylor-Wood) di un certo interesse e poi approdata ai servizi fashion, e poi al cinema, depotenziando via via quel che di perturbante il suo lavoro aveva agli inizi. Invece si è limitata a confezionare con una certa elegenza, evitando sbracamenti e cadute in una materia più insidosa per la melensaggine che per il sesso. Anche se non poteva rimediare ai dialoghi a volte goffi (risate frequenti in sala). La storia è nota. Siamo non ho capito bene se a Portland o a Seattle (o è Vancouver?). La studentessa-lavoratrice Anastasia detta Ana va a fare un’intervistina al magnate dei media Christian Grey, giovane, ricco e bello. L’incauta le chiede anche se sia gay, cosa che anziché indisporre l’intervistato accende il suo interesse. Un paio di giorni dopo Mr Grey fa un’imboscata nel negozio di ferramenta dove Ana lavora, la invita, la manda a prendere dall’autista, la accoglie davanti all’elicottero, pronto a portarla tra le nuvole. Sì, lo stile fa un po’ Olgettina, solo che Grey è indubbiamente molto più fico del signor B. Lui le butta lì di avere dei gusti ‘singular’, lei non afferra, finché Christian la porta di quella che chiama la sua business room e agli occhi dell’ingenua si spalanca tutto un corredo di fruste, maschere, flagelli, manette, peraltro disposti con cura maniacale. Ci stai o non ci stai?, le fa lui, e lei ingolosita più dal belloccismo di Christian che dall’S&M e del bondage di cui visibilmente non le frega niente, acconsente. Prima però dovrà firmare un contratto sulle regole cui dovrà attenersi durante la relazione (accetta quasi tutte le voci, fa cancellare invece fistfucking anale e vaginale e uso di sex toys impropri). Il problema vero del film, contro cui non ha senso infierire tanto per fare i ganzi intellò, è di essere noioso, di un noia micidiale. 125 minuti, un’eternità, e per il primo contatto carnale bisogna aspettare un’ora, che poi è una robina di polsi legati e di leccamenti con cubetto di ghiaccio (i legacci son tenuti tutti in cassetti ordinatissimi). Il Divino Marchese si sarà rivoltato nella tomba. Non è che neanche negli stadi successivi si vada molto più in là, siamo, ripetto per dire a Nymphomaniac, all’educandato. Che poi, tutto ruota intorno all’amore, al ‘caro, mi vuoi bene?’, mica al sesso. Tra le regole imposte dal Dominator c’è anche quella che lui non toccherà mai la sua Submissive, mai la abbraccerà, e mai dormirà con lei. Chiaro che il vero grido di dolore lanciato da Ana sarà “Touch Me!”, altro che flagellazioni Se non fosse così stirato sulle due ore e passa, se ci fosse dell’erotismo vero, della passionaccia, questo Cinquanta sfumature di grigio sarebbe anche guardabile. Invece si annega nella noia. Jamie Dornan è segaligno e robotico, e dunque abbastnza in parte come Dominator. Meglio Dakota Johnson, la figlia di Don Johnson e Melanie Griffith, che in mezzo a tanta plastica riesce a dare al suo personaggio una consistenza umana. Lui dopo la prima notte d’amore suona al piano l’Adagio di Benedetto Marcello, sì, proprio quello di Anonimo Veneziano. Guilty pleasure!