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Berlinale 2015: “Knight of Cups” di Terrence Malick

Creato il 18 febbraio 2015 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma
  • Anno: 2013
  • Durata: 118'
  • Distribuzione: Adler Entertainment
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: USA
  • Regia: Terrence Malick

Una storia antica raccontatagli dal padre, l’indirizzamento lungo la ‘via verso l’Est’, l’interpretazione dei tarocchi come lettura esistenziale, il disvelamento di sé attraverso la voce delle donne-simbolo incontrate: Rick (Christian Bale) è uno sceneggiatore in crisi arenato mentre cerca di ricucire gli strappi. Errabondo tra le vie di Los Angeles e le scene di Hollywood, Rick salta da una festa all’altra, da una donna all’altra, in cerca di un significato per la sua vita alla deriva.

Ci aveva abituati ad aspettare anni per l’uscita del suo nuovo film, tant’è che fino a The Tree of Life (2011) la sua filmografia contava solo quattro titoli-capolavori, mentre dal 2011 Terrence Malick ha prodotto quasi un film all’anno (To the Wonder nel 2012 ed ora Knight of Cups). La (non)struttura meravigliosa dei suoi lavori fatta di sguardi divisi tra cielo e terra/mare, e la narrazione sempre più rarefatta per uno stile intimo e irrazionale si sono imposti da The Tree of Life in poi come marchio di fabbrica di una poetica libera, nutrita di grazia, meraviglia e lotta tra un sublime anelato e la realtà mistificatrice.

Ma se The Tree of Life è stato il massimo punto di teorizzazione e messa in scena del cinema di Malick, il confronto tra l’albero e le sue diramazioni si fa inevitabile e, purtroppo, a discapito delle seconde, le quali soffrono dell’inevitabile paragone con la propria matrice e della declassificazione a emissione di minore intensità.

To the Wonder è stato probabilmente il risultato di maggiore derivazione dalla cellula madre mentre Knight of Cups sembra muoversi ancora oltre – il linguaggio, la struttura, la psicologia, l’evoluzione narrativa – per farsi stendardo di libertà della mise-en-scène.

Viene in qualche modo in mente il confronto con Adieu Au Langage di Godard, premiato a Cannes insieme a Dolan, opera summa di un regista indirizzato verso la rinuncia di una struttura classica per abbracciare un’esperienza estetica e sensoriale nuova. In Knight of Cups la trama si fa blanda e la consequenzialità si fa da parte in favore della suggestione. Rick e le sue donne compongono un quadro filosofico-esistenziale frammentario, si muovono in un flusso di immagini ed eventi discontinui, alimentato da spazi dilatati, gesti isolati, assenza di definizioni spazio-temporali.

Rick è caduto nell’amoralità di una (sur)realtà esistenziale caotica, e la ricerca di una sacralità, del sublime, si risolve in una tensione invece che in una penetrazione e svelamento del mistero. Anche davanti a Elizabeth (Natalie Portman), la donna amata che potrebbe salvarlo, tutto sembra effimero e inafferrabile. La felicità, la serenità, la responsabilità di padre e sposo, volendo sciogliere l’arcano del Re di Coppe, sono sentimenti inaccessibili per il travagliato anti-eroe.

Knight of Cups è da leggere come un’esperienza visiva affrancata dalle convenzioni, come il tentativo di lasciar confluire nella potenza delle immagini l’impotenza dell’essere umano. Knight of Cups è il canto inesprimibile di una voce interiore smarrita.

Francesca Vamtaggiato


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